Signor Presidente del Consiglio:
non è la prima volta che Lei rivolge, a singoli magistrati o alla magistratura, attacchi pesanti e a mio giudizio immotivati. Ma nella Sua recente intervista ai giornali “La voce di Rimini” e “Spectator” c’è di più. Nel Suo mirino (oltre a Magistratura democratica, da Lei assunta a paradigma di un “sistema giudiziario completamente politicizzato”) sono finiti, nell’ordine: le intere Procure di Milano e di Palermo, cui Lei addebita di “non fare altro che inventarsi teorie” sul Suo conto; tutti i giudici di Roma, da Lei accusati di aver partecipato (tutti…) a un “sistema di conti bancari che andavano su e giù dalla Svizzera”; i magistrati che hanno condannato a 20 anni il sen. Andreotti (penso che volesse riferirsi al processo di Perugia per l’omicidio Pecorelli); i magistrati che contro il sen. Andreotti “hanno creato una montatura per dimostrare che la Democrazia cristiana (…) non era un partito etico ma un partito vicino ai criminali” (il riferimento, in questo caso, si estende al processo di Palermo per associazione mafiosa); tutti i magistrati indistintamente, poiché Lei sostiene che “per fare questo lavoro bisogna essere malati di mente; se fanno questo lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”.
A fronte delle vigorose e severe reazioni che ne sono seguite, Lei ha diramato un comunicato in cui si afferma che il Suo “rispetto per l’impegno della magistratura non può essere messo in discussione” e si ribadisce la “presenza di incontestabili comportamenti faziosi di singoli procuratori”. Dunque, le Sue contestazioni non riguarderebbero l’intiero ordine giudiziario, ma soltanto singoli procuratori. Non è così, come dimostrano le vicende del nostro Paese degli ultimi anni. All’inizio, è vero, ad essere oggetto – non di critiche (ovviamente legittime e spesso utili) – ma di attacchi apodittici e indiscriminati sono stati solo alcuni procuratori.
Ma poi, man mano che le indagini si concludevano, hanno cominciato ad essere delegittimati e offesi i magistrati giudicanti: tutte le volte in cui sono stati chiamati a occuparsi di processi sgraditi e hanno deciso in maniera contrastante con le aspettative degli interessati. Alla fine, l’attacco - da Lei personalmente condotto con un intervento televisivo a reti unificate - si è addirittura rivolto contro le Sezioni unite della Cassazione, massimo organo giudiziario del nostro sistema, “colpevole” di non aver applicato la “legge Cirami” come Lei e altri si aspettavano. Il problema, allora, non è costituito da singoli procuratori.
L’attacco è, per così dire, a geometria variabile, nel senso che può subirlo qualunque magistrato - pubblico ministero o giudice, quale che sia la città o l’ufficio in cui opera - ogni volta che abbia la sfortuna (spiace dirlo: ma è ormai questa la parola giusta) di imbattersi in vicende delicate. Ciò pone una serie di interrogativi ineludibili. E’ giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato sol perché indaga o eventualmente condanna - per fatti specifici - un personaggio pubblico? E, viceversa, è giusto applaudire, sempre a priori, il magistrato che assolve quell’imputato? Quando si tratta di personaggi di peso (imputati – ripeto - per fatti specifici e non certo per il loro status) giustizia giusta è, per definizione, solo quella che assolve? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità di giudizio? Dove sta la linea di confine fra attacco e intimidazione?
Aggiungo una considerazione specifica. Recentemente la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di associazione per delinquere ascritto al sen. Andreotti, per il periodo antecedente la primavera 1980, affermando di non poter pronunciare una assoluzione nel merito perché i fatti emersi nel processo "… indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo". Non sta a me dire se queste conclusioni siano giuste o sbagliate, ma è difficile contestare, alla luce delle stesse, una realtà: i pubblici ministeri che hanno istruito il processo non hanno fatto altro che il loro dovere, traendo, da una massa di elementi di fatto, le conseguenze previste dalla legge.
Mentre non agire sarebbe stato illegale e scorretto - ancorché comodo - e avrebbe fatto perdere credibilità a tutte le altre inchieste condotte (anche quelle che hanno consentito alla magistratura palermitana di infliggere, nel triennio 2000-2002, ben 378 ergastoli per delitti di mafia). A fronte di questa realtà, è ingiusto impiegare slogan privi di consistenza per svilire una attività giudiziaria doverosa a capitolo di un gioco della politica: in cui i magistrati sarebbero semplici pedine, asservite a strategie eterodirette e finalizzate alla supremazia di una parte contro l’altra. Si può davvero pensare che i rapporti fra mafia e politica – in Italia, in Sicilia – siano una invenzione interessata?
Entrare in simili ragionamenti (anche solo per difendersi da vuote accuse) costa molta fatica, ma tacere sarebbe profondamente ingiusto: per me personalmente e per qualunque altro magistrato, posto che l’investitura popolare non dà a nessuno - neppure a Lei - il diritto di offendere. Per questo ho deciso di scriverLe e di rispondere alle Sue dichiarazioni – pur nel rispetto dovutoLe - con inflessibilità pari all’offesa che esse possono rappresentare per la libertà e dignità professionale mia e di altri magistrati. E non sono – mi creda – preoccupazioni che si possano liquidare accusando di “pazzia” chi osa esprimerle.
Con ossequio
Gian Carlo Caselli
9 settembre 2003