Non va allontanato il povero, ma la povertà. Non si può continuare a emarginare chi non partecipa allo sviluppo economico.
E lo sviluppo economico non è la soluzione. Serve uno sviluppo solidale
Don Vittorio Nozza, direttore Caritas, «Magazine» del Corriere della Sera, 18 dicembre 2007
A Genova Babu è crepato nel sonno, Scosso dal freddo, in silenzio.


Babu io l’ho conosciuto nelle strade e nelle piazze di tutti i giorni.
      L’ho scorto sdraiato sulla panchina del parco. E disteso nell’androne delle stazioni ferroviarie,
oppure appoggiato al muro con in mano le buste del supermercato.
Babu ti racconta che d’un tratto la vita è cambiata.
Babu è morto, scosso dal freddo e dalle scariche fecali che accompagnano la morte:
Nepalese, 43 anni, amante del vino a buon mercato. «Ubriacone senza fissa dimora».
Condannato a spengersi illuminato dai festoni natalizi.
Fra note classiche del Teatro Carlo Felice e liriche echeggianti dalla Mostra su De André.

Dieci secondi. Durante le feste si va di fretta, fra cenone e danze e pranzi per Capodanno. Di Babu che vuoi che gli interessi. Non a caso, più che una morte sembra un'esecuzione. Firmata in calce dai cittadini che lamentavano la presenza dei barboni sotto le volte del salotto buono. Inducendo le autorità di sguarnirli di coperte e cartoni.
Così che si togliessero alla vista. Non insudiciassero il colpo d'occhio. La povertà fa schifo.

Puzza, sporca, deprezza gli immobili, dequalifica il quartiere. Babu si è attaccato al cartone di vino. Rannicchiato dentro un'ombra. Dato le spalle ai lustrini e ai presepi. S'è lasciato andare al sonno che porta via tutto. La riflessione sul proprio fallimento di uomo e di padre. Ha sentito i brividi scuotergli le ossa. La bava salirgli dallo stomaco. Le lacrime cristallizzate sulle guance. Porta le ginocchia al petto, chiude i gomiti attorno alla faccia. Dal Carlo Felice irradiano i lamenti dei violini,
il tintinnare dell'arpa. La chitarra di De André musica i saloni della Mostra sull'altro lato della via, un lato pulito
e illuminato bene. Babu non trattiene l'orina. Le gambe sono fil di ferro, il ventre rattrappisce in un ghigno.
Accanto gli si accoccola Fabrizio. Fuma una paglia, il ciuffo sugli occhi a velare la Mostra.
Posa la mano sulla testa di Babu. Che si rilassa e soffia un sospiro.

Per un momento Genova spegne paillettes e falpalà. L’orchestra tace. La gente al museo diventa di pietra.
Babu s’allontana nella notte. Toglie il disturbo nel chiacchiericcio torbido che ritorna padrone.
Nei distinguo ufficiali calati sul palcoscenico della sua messa al muro. Mollando gli ormeggi a quegli altri.
I fratelli che lo piangono e lo ricordano.
Accusano sommessi gli ipocriti che hanno staccato la spina.

Nell’attesa di altro gelo e di un’altra morte. Scesa dal cielo a fare lo sporco lavoro che tanto fa comodo alle anime pigre.
Babu io l’ho conosciuto nelle strade e nelle piazze di tutti i giorni.
L’ho scorto sdraiato sulla panchina del parco. E disteso nell’androne delle stazioni ferroviarie,
oppure appoggiato al muro con in mano le buste del supermercato.
Babu ti racconta che d’un tratto la vita è cambiata.

Ha preso una strada tutta sua. Partorita da un divorzio, un licenziamento, un dolore straziante, una difficoltà dello spirito.
Le cose cambiano di colpo, perdi il baricentro ti ritrovi per strada a mendicare attenzione.

Babu non è un caso del destino. Appartiene a noi tutti. E’ uno di famiglia.
Che si guadagna uno sguardo quando, allungato sul marciapiede, intralcia il passo disinvolto incanalato sui binari quotidiani.

L'urlo travolse il sole
l'aria divenne stretta
cristalli di parole
l'ultima bestemmia detta.