Tra le possibili cause dell’accelerazione del processo di 'mafiosizzazione’ e concentrazione dei poteri criminali nell’area dello Stretto di Messina, trova sempre più credito l’attesa suscitata dal sogno trentennale di realizzare un’infrastruttura per l’attraversamento stabile dello Stretto, oltre 14.000 miliardi di lire d’investimenti per un ponte di appena tre chilometri di lunghezza (1).
Questa tesi trova conforto in quasi tutti i più recenti rapporti semestrali sullo stato della criminalità organizzata in Italia della Direzione Investigativa Antimafia. Il primo allarme sugli interessi suscitati tra le organizzazioni mafiose dalla ventilata realizzazione dell’infrastruttura, è stato rilanciato in un comunicato Ansa del 22 aprile 1998. “La DIA – si legge - è preoccupata dalla grande attenzione della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra per il progetto relativo alla realizzazione del ponte sullo Stretto”. “Appare chiaro – aggiunge la Direzione Investigativa Antimafia – che si tratta di interessi tali da giustificare uno sforzo inteso a sottrarre il più possibile l’area della provincia di Messina all’attenzione degli organismi giudiziari ed investigativi” (2).
Le mani sul Ponte
La DIA torna sull’argomento con una più approfondita valutazione, nella sua seconda relazione semestrale per l’anno 2000. Soffermandosi sulla ristrutturazione territoriale dei poteri criminali in Calabria e in Sicilia, il rapporto segnala come le ultime indagini hanno evidenziato che “le famiglie di vertice della ‘ndrangheta si sarebbero già da tempo attivate per addivenire ad una composizione degli opposti interessi che, superando le tradizionali rivalità, consenta di poter aggredire con maggiore efficacia le enormi capacità di spesa di cui le amministrazioni calabresi usufruiranno nel corso dei prossimi anni”. Nel mirino delle cosche, secondo la DIA, innanzi tutto i progetti di sviluppo da finanziare con i contributi comunitari previsti dal piano “Agenda 2000“ per le ‘aree depresse’ del Mezzogiorno, stimati per la sola provincia di Reggio Calabria in oltre cinque miliardi di euro nel periodo 2000-2006. “Altro terreno fertile ai fini della realizzazione di infiltrazioni mafiose nell’economia legale – aggiunge il rapporto della DIA - è rappresentato dal progetto di realizzazione del ponte sullo stretto di Messina, al quale sembrerebbero interessate sia le cosche siciliane che calabresi. Sul punto è possibile ipotizzare l’esistenza di intese fra Cosa nostra e ‘ndrangheta ai fini di una più efficace divisione dei potenziali profitti”.
A prova del patto comune tra le due organizzazioni criminali per la cogestione dei flussi finanziari previsti per la megainfrastruttura, gli investigatori segnalano in particolare i “collegamenti” emersi in ambito giudiziario nella gestione dei grandi traffici di stupefacenti, tra malavitosi gravitanti nell’area catanese e personaggi di spicco della ‘ndrangheta appartenenti al clan Morabito di Africo Nuovo. L’asse strategico tra questi potentissimi gruppi criminali ed il loro sofisticato modus operandi è stato evidenziato dalle indagini sull’infiltrazione mafiosa nella realizzazione dei grandi appalti pubblici nella provincia di Messina, e in particolare nella gestione di attività illecite nella locale Università degli Studi (3).
La Direzione Investigativa Antimafia ha arricchito questi elementi d’analisi con gli ultimi due rapporti semestrali sulle attività d’indagine espletate nell’anno 2001. Ciò che più preoccupa gli investigatori è la nuova struttura della ‘ndrangheta sorta dopo le guerre tra le cosche degli ultimi decenni, un’organizzazione criminale “vivacissima” nel settore del traffico internazionale di stupefacenti e con sempre maggiori possibilità di infiltrazione negli affari economico-imprenditoriali, anche grazie alla ridotta attenzione generale in tema di lotta alla mafia (4).
“Gli attuali standard organizzativi – si legge nella relazione della DIA - hanno consentito l’acquisizione di ingenti introiti finanziari in grado di sviluppare, accanto ai tradizionali business, attività di natura imprenditoriale, apparentemente lecite, che si presentano a costituire veicoli d’infiltrazione della malavita all’interno del sistema economico. Una siffatta strategia della ‘ndrangheta è quanto mai allarmante, soprattutto nell’attuale fase di sviluppo calabrese, nella quale al sistema imprenditoriale privato sono attribuite grandi responsabilità per il progresso dell’economia regionale, soprattutto nel quadro dei cospicui contributi comunitari per il piano pluriennale ‘Agenda 2000’ e con quelli, pure prossimi, relativi alla realizzazione del Ponte di Messina”.
A questa infrastruttura, è dedicato un passaggio chiave del rapporto della Direzione antimafia: “Le prospettive di guadagno che ne deriveranno non potranno non interessare le principali famiglie mafiose operanti in Calabria. Inoltre l’entità degli interessi per la costruzione del Ponte e la particolarità dell’opera, sono tali da far ritenere possibile un’intesa tra le famiglie reggine e Cosa Nostra, in vista di una gestione non conflittuale delle opportunità di profitto che ne deriveranno”. Come si vede, gli investigatori confermano la possibilità di un’intesa ‘ndrangheta-Cosa Nostra per la suddivisione degli appalti relativi al Ponte dello Stretto, una compartecipazione affaristica in linea all’impostazione data a Cosa Nostra in Sicilia dagli uomini affiliati a Bernardo Provenzano, incline alla trattativa ‘politica’ con le istituzioni dello Stato ed al recupero del coordinamento regionale delle organizzazioni mafiose. E’ appunto questa strategia d’intervento che ha restituito alla mafia la possibilità di sfruttare a pieno le sue risorse economiche principali: lo sfruttamento parassitario delle attività commerciali e imprenditoriali locali e il controllo nel settore degli appalti pubblici e delle imprese siciliane e nazionali che operano nell’isola.
Secondo la DIA, Cosa Nostra avrebbe ripristinato un elevato grado di controllo sull’imprenditoria, specialmente quella del settore edile, intercettando sia gli investimenti pubblici sia quelli privati, “vuoi mediante l’estorsione pura e semplice, vuoi con la partecipazione diretta ai lavori”. “Con la conseguenza – conclude la Direzione antimafia - che una rilevante quota delle risorse investite viene sottratta alla realizzazione dell’opera, determinandone una esecuzione non rispondente ai criteri qualitativi stabiliti e la necessità di dare ricorso ad ulteriori e non previsti finanziamenti”. Uno scenario particolarmente preoccupante proprio perché affermatosi in prospettiva della “prossima realizzazione di una straordinaria serie di opere indispensabili per l’adeguamento delle strutture dell’isola agli standard nazionali ed europei” (5).
Il grande affare del consorzio ‘Ndrangheta-Cosa nostra S.p.A.
Sin qui le relazioni ufficiali del massimo organo d’investigazione antimafia. Alle considerazioni precedenti vanno aggiunte le dichiarazioni di due tra i maggiori rappresentanti degli organi giudiziari dello Stretto, l’ex procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, e il procuratore capo di Messina, Luigi Croce.
Boemi, occupatosi di importanti indagini sulle infiltrazioni mafiose nel tessuto economico calabrese e sull’asse ‘ndrangheta-eversione di destra-massoneria e politica (6), ha ripetutamente messo in guardia sui sempre più provati interessi mafiosi per l’accaparramento degli enormi investimenti pubblici in arrivo a Reggio Calabria. “Il Ponte è il grande affare del terzo millennio per Sicilia e Calabria: se non se ne interessa la mafia, ne sarei sorpreso” ha commentato nel corso dello speciale sul Ponte della trasmissione ‘Sciuscià’ di Michele Santoro, nel febbraio 2001. "Il ponte sullo Stretto lo vogliono tutti, sarà un affare da 15 mila miliardi" ha poi spiegato il dottor Boemi al giornalista Mario Portanova ."Già fra la richiesta "ambientale" e i subappalti, la mafia si appropria del 25 per cento dei soldi pubblici che arrivano in Calabria" (7). Nonostante l’infiltrazione dei gruppi criminali nei grandi appalti, lo stesso Boemi ha dovuto lamentare la “cancellazione” del pool antimafia di Reggio Calabria, la “fine di una stagione” di contrapposizione alle cosche e ai comitati d’affari che “si preparano al varo del ponte sullo Stretto e ai miliardi europei di Agenda 2000” (8).
Nel mirino delle cosche ci sarebbero anche i quasi mille miliardi relativi al cosiddetto ‘Decreto Reggio Calabria’, i finanziamenti del Piano Urban per la riqualificazione del centro urbano e quelli relativi alla costruzione di nuovi pontili per il collegamento marittimo Reggio-Messina. “Relativamente al problema del ponte sullo Stretto – ha aggiunto il procuratore Boemi - vorrei capire come si possa conciliare questo investimento sull'attraversamento stabile con i nuovi progetti per dar vita a corsie preferenziali ai fini del potenziamento del traghettamento dello stesso Stretto di Messina” (9).
Il magistrato cioè, oltre a denunciare il rischio d’infiltrazione criminale, pone il dito contro la logica degli sprechi delle risorse economiche e finanziarie e l’assenza di una politica organica dei trasporti da parte delle classi dirigenti locali e nazionali.
Dall’altra parte dello Stretto, ha fatto eco al dottor Boemi, il Procuratore capo della Repubblica di Messina, Luigi Croce. Nel corso di un convegno organizzato dalla locale Associazione antiusura, il magistrato ha denunciato i “contrastanti ed inquietanti” segnali inviati alla città dal mondo criminale: “È forse all'orizzonte, in vista anche della possibile costruzione del Ponte, un'alleanza ancor più stretta tra Cosa Nostra e 'Ndrangheta che passa per la città dello Stretto, per cui la crisi delle organizzazioni locali potrebbe semplicemente aprire la strada a un'invasione da parte delle organizzazioni mafiose esogene”. Anche il dottor Croce denuncia il clima di “generale rilassamento” in tema di contrasto della criminalità, fattore che alimenterebbe nella provincia di Messina gli interessi dei gruppi mafiosi e dei settori dell’imprenditoria in rapporto con le cosche. “In alcuni casi hanno costituito una vera e propria “mafia bianca”, meno appariscente di quella dei Riina, dei Santapaola e, su scala più ridotta, degli Sparacio, ma non meno perniciosa per lo sviluppo della città” (10).
Sui tentativi d’infliltrazione della mafia per l’accaparramento del flusso delle risorse previste da ‘Agenda 2000’ e dai progetti per le grandi opere infrastrutturali come il Ponte sullo Stretto, è recentemente intervenuta anche la Procura di Palermo attraverso il procuratore aggiunto Roberto Scarpiato. L’allarme è stato ripreso dagli allora ministri del tesoro Vincenzo Visco e delle finanze Ottaviano del Turco. Visco, riferendosi espressamente al Ponte sullo Stretto, ha richiesto che “i controlli e l'azione di prevenzione siano organizzati con grande attenzione, grande energia e grande decisione”. Del Turco, già presidente della Commissione parlamentare antimafia che aveva indagato su criminalità-politica e affari nel messinese, ha commentato che il Ponte “deve riunire due realtà, quelle di Messina e Reggio Calabria, in cui ci sono stati fenomeni che hanno coinvolto la vita delle amministrazioni. E visto che la mafia si è occupata di tutti gli appalti anche di minima entità si può immaginare che non metta gli occhi su un appalto di 5-6 mila miliardi?” (11).
Un impatto criminale top secret
Le dichiarazioni degli ex ministri Del Turco e Visco sono il frutto di intuizioni soggettive, oppure trovano un fondamento ‘scientifico’ e documentale? In realtà è difficile credere che i due componenti dell’esecutivo abbiano parlato del ‘rischio infiltrazione’ senza una lettura del rapporto sul cosiddetto ”impatto criminale del Ponte”, commissionato nell’anno 2000 al centro studi Nomos del Gruppo Abele di Torino dagli advisor chiamati dal Ministero dei lavori pubblici a valutare la fattibilità dell’opera (12). Nonostante le conclusioni di questo studio siano state secretate dai committenti e dallo stesso governo, alcuni dei passaggi chiave sono stati rivelati in un articolo dello studioso Giovanni Colussi pubblicato dal settimanale Carta, ed in un saggio del sociologo Rocco Sciarrone sulla rivista Meridiana. E’ bene riportarne alcuni passi.
“Sono state prese in considerazione le due possibilità offerte dal ministero dei lavori pubblici e da quello del tesoro: Ponte sullo Stretto e trasporto multimodale” scrive Colussi. “Trattandosi di un’esperienza con pochi precedenti, gli autori hanno dovuto ragionare su un modello interpretativo che potesse offrire un’efficace descrizione dell’opportunità criminale che si apriva, per i mafiosi, con un’opera come il Ponte. Ed è stato scelto un modello di analisi essenzialmente qualitativo, non essendo disponibili dati sufficienti che consentissero la costruzione di indicatori efficaci sul piano quantitativo. La storia dei gruppi criminali presenti sul territorio, e la loro reattività alle opportunità offerte da altre Grandi Opere, sono state incrociate con le caratteristiche dell’opera in quanto tale: modalità di costruzione, la presenza o meno di manodopera specializzata, il livello tecnologico richiesto nelle varie fasi della lavorazione. Si è cercato quindi di identificare, attraverso un’analisi del know-how criminale presente in loco, le parti più a rischio di infiltrazione mafiosa” (13).
Per ciò che concerne il contesto geocriminale in cui s’inserisce il progetto, i ricercatori di Nomos confermano come lo Stretto di Messina si caratterizzi per essere un’area ad alta densità mafiosa “in cui le attività criminali sono strutturate e coordinate a livello organizzativo, e quindi realizzate con sistematicità” (14). Analizzando il modo con cui mafie e imprenditoria locale e nazionale hanno interagito principalmente in Calabria per la realizzazione di grandi opere pubbliche (l’autostrada Salerno-Reggio, il porto e la centrale di Gioia Tauro, ecc.), il rapporto rileva la notevole capacità dei gruppi criminali di inserirsi nei grandi appalti pubblici. “La ‘ndrangheta ha, infatti, saputo imporsi in molte delle numerose infrastrutture costruite in Calabria dagli anni sessanta ad oggi. E spesso le strategie di infiltrazione sono state realizzate stringendo rapporti di collusione con le imprese titolari degli appalti” e instaurando “rapporti di scambio reciprocamente vantaggiosi con il mondo della politica e dell’imprenditoria” (15).
Dato il contesto delle relazioni intercorse e dato il controllo pressoché totale del territorio da parte della ‘ndrangheta, Nomos giunge a dichiarare “pienamente fondato” il rischio criminalità della localizzazione dell’infrastruttura in quest’area. Si è di fronte ad un “danno atteso”, in cui si prefigura un rapporto di ‘cooperazione’ tra le cosche per l’accaparramento degli appalti. A tal fine la ‘ndrangheta si è dotata, sul modello della struttura organizzativa della mafia siciliana, di un organismo unitario e centralizzato di coordinamento in grado di appianare le controversie interne (16).
Si ritiene infine plausibile un vero e proprio “accordo di cartello” tra i vertici delle cosche di ambedue le regioni: alle stesse conclusioni, come abbiamo visto, sono giunti gli investigatori della Direzione Nazionale Antimafia.
Lo scenario degli appalti
Un elemento che rende particolarmente attrattivo il Ponte alle cosche criminali – secondo il rapporto di Nomos - è l’ingente somma prevista per la sua realizzazione, e soprattutto il fatto che si è di fronte ad un’iperconcentrazione degli investimenti in un’area territoriale limitata. E’ possibile prevedere che rispetto a questa particolare condizione dell’opera, i gruppi mafiosi metteranno in atto fondamentalmente due tipi di strategie per accaparrarsi l’enorme flusso finanziario previsto. La prima strategia, scrive Sciarrone, “ha a che fare direttamente con il controllo del territorio e si sostanzia concretamente nel meccanismo della estorsione-protezione. La seconda riguarda l’attività imprenditoriale dei mafiosi e di loro eventuali soci e si traduce empiricamente nell’inserimento dei lavori da eseguire”. Il pagamento del ‘pizzo’ sui lavori affidati in appalto o in concessione, la protezione su scambi e accordi pattuiti da terzi, il controllo e l’intermediazione rispetto al mercato locale del lavoro, il collegamento e la mediazione con i circuiti politico-amministrativi, appaiono le attività più prevedibili, anche perché sono le meglio sperimentate dalle organizzazioni criminali. “La realizzazione di un’opera come Il Ponte – aggiunge Sciarrone - potrebbe costituire altresì una favorevole opportunità per rapporti economici e attività imprenditrici che vanno fondamentalmente in due direzioni: attraverso imprese costituite e gestite direttamente da esponenti del gruppo criminale e attraverso la costituzione di fatto (se non di diritto) di società con imprenditori ‘puliti’” (17).
Questi interventi sono favoriti appunto dall’organizzazione stessa che si è data la mafia calabrese, in grado ormai di poter agire con imprese e società che, in vario modo, “sono da essa controllate e che, assumendo forme del tutto legali, sono in grado di utilizzare tutti gli strumenti tecnico-giuridici idonei a rendere “invisibile” la presenza mafiosa” (18).
E’ tuttavia più credibile l’ipotesi che i gruppi criminali puntino alla gestione diretta dei lavori. Come rilevato dall’ex procuratore di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, la ‘ndrangheta non punta alle “estorsioni di piccolo cabotaggio”, ma all’ingresso da protagonista nella gestione diretta delle opere previste nella provincia di Reggio. “Non vorrei – ha spiegato Boemi - che si ripetesse in questa occasione l'errore che si fece, anni fa, ai tempi del costruendo Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro, quando si rincorrevano piccoli affari mafiosi e si perdeva di vista che la mafia era entrata nella grande torta” (19).
Basta pensare al grado di condizionamento esercitato dalla ‘ndrangheta durante i lavori di costruzione della megacentrale a carbone, ancora una volta a Gioia Tauro. “Non c‘era più soltanto il classico inserimento delle ‘ndrine nei lavori di sub appalto – scrive lo storico Enzo Ciconte – ma c’era l’individuazione dell’impresa a “partecipazione mafiosa” la cui caratteristica essenziale era di “far capo, comunque al mafioso, ma gestita da un insospettabile prestanome. Inoltre, c’era anche il consorzio d’imprese che univa insieme imprese mafiose e imprese non mafiose, e c’era la complicità degli organi istituzionali dell’ENEL” (20).
Sino a qui, in realtà, l’analisi del centro studi del Gruppo Abele di Torino non appare originale, poiché non ci sarebbero differenze particolari del ‘rischio criminalità’ nel caso della realizzazione del Ponte dello Stretto o di una qualsivoglia megainfrastruttura in qualsiasi parte del territorio a controllo mafioso. Se però si tengono in conto le specificità tecniche del progetto (il Ponte in sé con le strutture portanti e le relative infrastrutture d’accesso, di collegamento e di servizio), è possibile definire un impatto criminale che ha carattere di unicità nel panorama delle Grandi Opere. In verità Nomos sostiene che l’elevato contenuto tecnologico dell’infrastruttura e la necessità di reperire manodopera qualificata possano essere fattori d’ostacolo per l’inserimento dei gruppi mafiosi. “La maggior parte degli elementi che compongono l’impalcato e le torri sono prefabbricati e preassemblati. Per questi lavori, si può ipotizzare che le possibilità d’infiltrazione da parte di imprese mafiose o a compartecipazione mafiosa siano ridotte. Molto dipenderà comunque da come saranno articolati, lottizzati e appaltati i lavori stessi” (21).
Una tesi difficile da condividere, anche perché risponde ad una visione assai riduttiva delle capacità d’impresa delle organizzazioni mafiose e che non tiene conto delle risultanze delle più recenti indagini. Esiste realmente questa divisione di competenza tecnologica tra la grande impresa ‘legale’ e l’impresa in mano ai boss? E non è forse vero che attraverso l’investimento in borsa di quantità inimmaginabili di denaro sporco, le organizzazioni criminali siano entrate in possesso di cospicui pacchetti azionari delle maggiori imprese ‘tecnologizzate’ così da divenire esse stesse imprese mafiose o a capitale mafioso? La scalata mafiosa al Gruppo Ferruzzi, holding finanziaria con vasti interessi nel settore delle infrastrutture a tecnologia avanzata è l’esempio più noto di questo processo di trasformazione del ruolo imprenditoriale della criminalità. Proprio alla vigilia della realizzazione delle grandi opere promesse dal governo Berlusconi, sono stati raccolti ulteriori segnali che comproverebbero una evoluzione in tal senso delle relazioni mafia-imprenditoria. Il procuratore Pier Luigi Vigna, in una sua recente audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, ha fatto esplicito riferimento ad “una vera e propria mimetizzazione in atto delle imprese colluse con la mafia”, fenomeno che si accompagna ad un vasto movimento delle imprese stesse, una “sorta di trasmigrazione” da una regione all’altra. Molte società cioè, avrebbero deciso di trasferire la loro attività e di abbandonare la Sicilia, lasciando il mercato libero ai grandi gruppi imprenditoriali del Nord. E’ questo il frutto di un accordo più o meno tacito, oppure è il segnale di una modifica in atto delle stesse composizioni societarie delle holding finanziarie a capo delle grandi imprese?
Al di là di una possibile sottovalutazione delle capacità tecnologiche delle imprese mafiose, il rapporto Nomos è importante perché giunge a quantificare la percentuale delle opere che tuttavia sarebbero a specifico rischio d’infiltrazione criminale. Il dato di per sé è allarmante: secondo il ricercatore Giovanni Colussi circa il 40 per cento delle opere potrebbe alimentare i circuiti mafiosi (22).
E’ nei settori più tradizionali dell’intervento criminale nei lavori pubblici (movimenti terra, trasporti, forniture di materiali inerti e calcestruzzi), in cui è più facile glissare normative e certificazioni antimafia, che secondo i ricercatori di Torino è possibile un “maggior grado di permeabilità all’azione di gruppi criminali”. Il Ponte è un megamonumento di cemento ed acciaio (è prevista la produzione e la movimentazione di oltre 1,1 milioni di tonnellate di cemento, 780.000 metri cubi d’inerti, 69.000 tonnellate d’acciaio, oltre 1,3 milioni di metri cubi di materia di risulta). I mafiosi “cercheranno di inserirsi proprio in attività di questo tipo, che costituiscono ormai da tempo i settori che privilegiano e che in genere tendono a monopolizzare” (23).
“Per quanto riguarda le torri – spiega ancora Rocco Sciarrone - un rischio criminalità potrebbe in ipotesi manifestarsi nella fase di scavo e della realizzazione delle fondazioni, il cui volume complessivo è di 86.400 mc in Sicilia e di 72.400 mc in Calabria. In questo caso, imprese mafiose – già esistenti o più probabilmente costituite ad hoc – potrebbero rivendicare una partecipazione diretta ai lavori, soprattutto per le fasi di scavo e di movimentazione terra. Lo stesso rischio può essere segnalato per quanto riguarda le strutture di ancoraggio dei cavi di sospensione, per le quali è previsto un volume di 328.000 mc in Sicilia e di 237.000 mc in Calabria”. “Se si tiene inoltre conto che per la realizzazione del manufatto occorrono in totale circa 860.000 mc di calcestruzzo, il rischio criminalità appare di gran lunga più elevato data la tradizionale specializzazione dei gruppi mafiosi nel cosiddetto ‘ciclo del cemento’. Lo stesso rischio si rileva in tutte quelle lavorazioni con procedure esecutive di tipo standardizzato, che riguardano, ad esempio, verniciature, saldature, pavimentazioni, ecc.” (24).
“Da dove verrà tutto il cemento necessario a costruire il ponte?”, si domanda il sociologo Osvaldo Pieroni, autore di un eccellente volume che analizza i limiti dell’infrastruttura. “E chi gestisce in quest’area il mercato delle attività estrattive, del cemento, delle costruzioni e degli appalti?”. E’ lo stesso Pieroni a fare un lungo elenco di famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i Mammoliti, i Mazzaferro e i Piromalli di Gioia Tauro, gli Iamonte di Melito Porto Salvo, i Barreca di Pellaro, i Pesce e i Pisano di Taurianova, i Serraino, i Viola e gli Zagari di Roccaforte del Greco, i Fazzolari e gli Albanesi di Molochio (25). I nomi sono gli stessi di quelli segnalati dai più recenti rapporti della Direzione nazionale Investigativa Antimafia, accanto ai clan Mancuso e Morabito, di cui si denuncia l’enorme pericolosità “in virtù dei già percorribili segnali di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale legale”, capace di “condizionare le procedure di gare d’appalto”.
Gallerie, ferrovie e viadotti, la vera manna della mafia del Ponte
Ma è nell’ambito dei lavori per i collegamenti ferroviari e stradali, in buona parte previsti in galleria (21,7 Km in Sicilia e 25,9 Km in Calabria) e delle rampe di accesso al Ponte, che secondo Nomos il rischio criminalità è ancora più alto ed evidente. Tali lavori prevedono notevoli volumi di scavo e discarica, oltre al fabbisogno di inerti lapidei per calcestruzzi. Si avranno complessivamente 4,2 milioni di mc di scavo sul versante siciliano e 3,9 milioni di mc su quello calabrese e nonostante le dimensioni di queste opere, il progetto della Società Stretto di Messina non fornisce ipotesi credibili sulla localizzazione e l’utilizzo delle cave e delle discariche necessarie.
Ci sono poi le infrastrutture di servizio al Ponte, che nel progetto comprendono un volume complessivo di fabbricati per ciascun versante di 2.800 mc, un’area di servizio-ristoro in Sicilia (38.000 mc), un centro commerciale e di ristoro in Calabria (35.000 mc), un centro direzionale sempre in Calabria con un’area d’assistenza e soccorso ed una caserma della polizia (15.000 mc), un albergo ad anfiteatro (23.500 mq), un museo (2.300 mq). “Si tratta di opere rilevanti, che richiederanno un impegno finanziario non indifferente e che facilmente possono richiamare gli interessi dei gruppi mafiosi” afferma il sociologo Rocco Sciarrone. “Il rischio criminalità è dunque particolarmente elevato, tenendo peraltro presente che tali opere saranno considerate secondarie – e anche oggettivamente marginali – rispetto alla realizzazione del manufatto e delle sue infrastrutture principali. Il livello di “guardia” potrebbe essere più basso e ciò comporterebbe di conseguenza un maggior grado di vulnerabilità di queste opere rispetto a eventuali infiltrazioni mafiose” (26).
Un altro settore particolarmente sensibile alla penetrazione mafiosa è quello relativo all’offerta di servizi necessari per il funzionamento dei cantieri. Oltre alla tradizionale funzione di guardiania, “i mafiosi cercheranno con molta probabilità di inserirsi nelle fasi di installazione e organizzazione dei cantieri, e successivamente anche nella gestione dei loro canali di approvvigionamento. E’ dunque ipotizzabile il tentativo di controllare il rifornimento idrico e quello di carburante, la manutenzione di macchine e impianti e la relativa fornitura di pezzi di ricambio, il trasporto di merci e persone” (27). Un’ultima nota del rapporto Nomos sul rischio criminalità è riservata al ruolo che i mafiosi potrebbero cercare di assumere, in termini di intermediazione e speculazione, sui terreni da espropriare per la costruzione delle infrastrutture di collegamento e di servizio. Segnali d’allarme in tal senso, sono stati raccolti dal Forum sociale di Messina tra gli abitanti della frazione di Faro-Capo Peloro, in occasione del recente campeggio di lotta contro il Ponte sullo Stretto.
Un 40% delle opere ad alto “rischio di azione criminale” significano 5.600-6.000 miliardi di lire d’investimenti pronti a finire nelle mani delle imprese di mafia. Nonostante lo scenario di forte illegalità e incompatibilità socioterritoriale del progetto Ponte, il vecchio governo di centrosinistra guidato da Giuliano Amato ha scelto di occultare i risultati del rapporto, e per bocca del sottosegretario ai lavori pubblici, on. Antonino Mangiacavallo, ha ridimensionato l’”impatto criminale” dell’infrastruttura, assimilandola ad un qualsiasi progetto per il trasporto multimodale. “Il maggior pericolo, nel caso della realizzazione del Ponte, non appare legato né alla natura dell'opera né alla sua unitarietà” ha dichiarato Mangiacavallo, rispondendo ad una serie di interrogazioni parlamentari. “A rendere più rischiosa tale soluzione sembra solo essere la sua maggiore dimensione finanziaria rispetto alla multimodalità, ma se le risorse pubbliche liberate dalla scelta dello scenario multimodale venissero impiegate per rendere tale stesso scenario più robusto, costruendo ponti, aeroporti e strade (...), l'impatto sulla sicurezza dei due scenari diverrebbe simile” (28).
Nonostante il contorto gioco di parole, il sottosegretario conferma implicitamente che la mafia è pronta a spartirsi i lavori di realizzazione del manufatto.
Al grande appuntamento con il mostro tra Scilla e Cariddi le autorità si stanno accingendo impreparate e senza gli strumenti idonei ad impedire il grande banchetto delle cosche criminali siculo-calabre. Debole e per lo meno inopportuna è la soluzione auspicata dagli stessi ricercatori del Gruppo Abele, che nel rapporto sul ‘rischio criminalità’ per i lavori del Ponte prospettano la creazione di una task force guidata dai magistrati “che opererebbero come aggiunti presso le DDA di Messina e Reggio Calabria, coordinati dalla Direzione Nazionale Antimafia e coadiuvati da un apposito nucleo della DIA, allo scopo di compiere una sistematica attività d’indagine e di prevenzione nei confronti di tutti i soggetti economici impegnati nell’opera” (29)
Valutare come altissimi i costi in termini di militarizzazione e controllo mafioso del territorio nel momento in cui si aprirebbero i cantieri per il Ponte, dovrebbe portare ad una seria messa in discussione del valore e della fattibilità dell’opera stessa. E’ particolarmente ingenuo pensare che l’enorme impatto sociocriminale previsto possa essere ‘bilanciato’ e ‘controllato’ dal potenziamento degli organismi d’indagine e magari di polizia. Il processo di militarizzazione della Sicilia, la realizzazione di megaimpianti di guerra sotto il controllo dei più efficienti sistemi d’intelligence degli Stati Uniti, non ha assolutamente impedito l’infiltrazione criminale nei cantieri e nei servizi delle basi e degli aeroporti. Di contro, esso è stato funzionale alla composizione di nuovi e più agguerriti blocchi sociali moderati e al potenziamento della forza politico-militare della mafia. La realizzazione delle grandi opere militari ha avuto l’effetto, non certamente secondario, di ridurre gli spazi d’espressione democratica e d’organizzazione dei soggetti sociali antagonisti al modello di sviluppo dominante e al complesso bellico-industriale. C’è poi da chiedersi perché mai dovrebbe avere esito positivo l’implementazione di una task force di magistrati e agenti speciali, in un’area dove le forti contiguità tra i poteri hanno impedito l’esercizio della giustizia e persino inquinato e depistato indagini strategiche per colpire i santuari del crimine…
Non è un caso che l’ipotesi di un ‘nucleo speciale d’indagini’ sia piaciuta ai grandi Signori del Ponte. L’on. Nino Calarco, direttore della Gazzetta del Sud e presidente della Stretto di Messina, a proposito del rischio d’infiltrazione mafiosa negli appalti è giunto a proporre di nominare l’ex procuratore distrettuale della DDA di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, a capo della task-force che il governo dovrebbe istituire per la verifica della legalità. “Boemi sarebbe l’uomo giusto anche perché è stato il primo a sollevare il problema delle possibili infiltrazioni mafiose” (30).
Un tentativo di cooptazione e di legittimazione delle classi dirigenti locali che non può che essere respinto per la sua inutilità e pericolosità. Quali sarebbero poi le garanzie e i supporti che il nuovo governo potrebbe mai dare a task force del tipo di quella proposta per la ‘vigilanza’ dei lavori del Ponte? Illuminante in proposito quanto ha dichiarato recentemente il ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi: “Ci siamo preoccupati d’investire una piccolissima parte delle somme destinate alla realizzazione delle grandi opere per la sicurezza contro il rischio criminalità. Abbiamo siglato un accordo con il ministero degli Interni e del Tesoro in virtù del quale sui cantieri per le grandi opere saranno presenti tutori dell’ordine a garanzia che tutto avvenga al riparo dalle pressioni mafiose. Monitoraggio costante, dunque, sui cantieri, come peraltro sta già avvenendo in altre zone d’Italia” (31). Nient’altro che fumo: piccolissime somme di denaro e qualche tutore dell’ordine in più. Per Lunardi, del resto, l’infiltrazione mafiosa nella gestione delle grandi opere non può essere argomento d’allarme. “Mafia e Camorra ci sono e dovremo convivere con questa realtà” ha esternato il ministro nell’agosto 2001. “Questo problema non ci deve impedire di fare le infrastrutture. Noi andiamo avanti a fare le opere che dobbiamo fare, e questi problemi di Camorra, che ci saranno, per carità, ognuno se li risolverà come vuole”.
Guerra e stragi per i lavori del Ponte
L’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nella gestione delle risorse finanziarie finalizzate alla realizzazione del Ponte non è un processo recente, e soprattutto non è stato né lineare né indolore. Al contrario, esso è passato attraverso una fase di grave conflitto tra le maggiori cosche calabresi, culminata in una vera e propria guerra che, nella seconda metà degli anni ’80, ha disseminato di morti (oltre 600) le strade della provincia di Reggio Calabria. Lo scontro militare scoppiò nell’ottobre del 1985 a seguito dell’assassinio del boss di Archi Paolo De Stefano, intimamente legato ai poteri economici, politici e massonici. Di lui sono stati provati i legami con la Banda della Magliana e con gli ambienti dell’eversione di estrema destra, alla quale si sarebbe accostato “negli anni in cui frequentava l’Ateneo messinese, ed attraverso tali ambienti con altri ancora più potenti ed influenti a livello nazionale, quali quelli dei servizi segreti, della massoneria deviata, del terrorismo internazionale e dei grandi trafficanti internazionali di armi e droga” (32).
L’eliminazione di Paolo De Stefano fu la risposta, immediata, all’attentato con un’autobomba cui era miracolosamente scampato il boss Antonino Imerti, detto ‘nano feroce’, ma che costò la vita a tre persone. Gli inquirenti non tardarono ad individuare la causa scatenante del conflitto tra le cosche. “A quanto pare - scrive Enzo Ciconte - la guerra era da mettere in relazione agli appalti pubblici attorno a Villa San Giovanni in vista della costruzione del ponte sullo stretto di Messina che avrebbe dovuto collegare stabilmente le sponde della Calabria e della Sicilia” (33).
Alla stessa conclusione sarebbe giunto il Tribunale di Reggio Calabria, in una sua recente ordinanza di arresto contro 191 affiliati alla ‘ndrangheta: “Tra le ragioni alla base della “guerra di mafia” che ha interessato l’area di Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, sembra esserci anche il controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del Ponte sullo Stretto” (34).
La tesi viene sposata dalla Commissione parlamentare antimafia in visita nel 1989, nella provincia di Reggio Calabria. Pur senza fare esplicito riferimento all’infrastruttura, la Commissione, soffermandosi sul caso di Villa San Giovanni, comune che aveva visto cadere sotto i colpi di lupara affiliati alle cosche e uomini politici locali, affermava che “i giudici hanno chiarito che in questa località si è sviluppato uno scontro fra cosche per la gestione di una cospicua, futura erogazione di denaro. (...). E’ ragionevole pensare che al centro delle attenzioni da parte della criminalità organizzata possa essere stato il Comune più importante e produttivo (Villa San Giovanni) ove peraltro deve essere decisa la realizzazione di importanti opere pubbliche” (35).
In realtà lo scatenamento del conflitto seguì di poco gli annunci favorevoli alla realizzazione dell’opera “in tempi brevi” da parte dell’allora governo presieduto da Bettino Craxi. Il leader socialista arrivò perfino a fissare le date del progetto: “i lavori del Ponte dovranno iniziare nel 1988 e terminare nel 1996” (36). Le aspettative furono alimentate dalla firma, sempre nel 1985, della convenzione Stato-Società dello Stretto di Messina che metteva nero su bianco sui tempi di realizzazione dell’infrastruttura. L’anno successivo il ministero dei lavori pubblici diretto da Claudio Signorile stanziava 220 miliardi per ulteriori studi e sondaggi nell’area tra Scilla e Cariddi (37).
Il rapporto diretto guerra di mafia-Ponte ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Filippo Barreca, deponendo durante il processo contro il boss Giorgio De Stefano ed altri 34 affiliati alla ‘ndrangheta di Reggio Calabria, ha spiegato che il conflitto tra Paolo De Stefano e Antonino Imerti verteva proprio su chi dovesse esercitare la leadership sulla gestione delle opere infrastrutturali: “Liberando il territorio da Antonino Imerti, Paolo De Stefano si assicurava il controllo della zona e, quindi, dei futuri lavori”.
L’ex affiliato alla ‘ndrina Filippo Barreca ha aggiunto che fu proprio l’esigenza di appropriarsi dei cospicui finanziamenti per le opere pubbliche a spingere le cosche a ricomporre il conflitto “L’interesse a che fosse ristabilita la pace in provincia di Reggio scaturiva da una serie di motivazioni, alcune di ordine economico (pacchetto Reggio Calabria e realizzazione del ponte sullo Stretto) e altre di politica criminale” ha dichiarato Barreca ai magistrati calabresi.
“Anche i siciliani presero posizione nel senso che andava imposta la pace fra le cosche del Reggino, essendo in gioco grossi interessi economici la cui realizzazione veniva compromessa da quella guerra. Mi riferisco al ponte sullo Stretto nonché ad opere pubbliche che dovevano essere appaltate su Reggio Calabria”.
Il procedimento giudiziario scaturito dalla cosiddetta ‘Operazione Olimpia’ ha accertato l’intervento dei maggiori esponenti di Cosa Nostra siciliana per favorire la rappacificazione tra le cosche calabresi, accanto ai vecchi patriarchi della ‘ndrangheta emigrati in Canada e ad alcuni esponenti politici reggini vicini ai poteri massonici e all’eversione di estrema destra. La pace di Reggio rappresentò una vera e propria svolta nella storia della ‘ndrangheta, che si riorganizzò sul modello delle ‘commissioni’ delle province siciliane e con una struttura sempre più impermeabile alle possibili infiltrazioni esterne. Le ‘ndrine ne uscirono dunque rafforzate e ben organizzate per partecipare alla spartizione delle nuove opere pubbliche programmate nell’area.
L’estorsione sui sondaggi
Una conferma degli interessi di Cosa Nostra nella gestione delle attività relative alla realizzazione del Ponte è venuta da un altro importante collaboratore di giustizia, il messinese Gaetano Costa, che ha riferito di un incontro tenutosi a Roma intorno all’82-83 tra il suo ex braccio destro Domenico Cavò, poi assassinato, e il boss Pippo Calò, mente economica delle cosche vincenti di Palermo, “per discutere una questione concernente l’inserimento della mafia nella gestione di alcuni sondaggi geologici in vista della possibile realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”.
Questa dichiarazione ha trovato conferme in ambito processuale, nel cosiddetto procedimento ‘Olimpia 4’, condotto contro le famiglie dei Rosmini, dei Serraino, degli Imerti, dei Condello, dei Latella e dei Paviglianiti, responsabili di una serie di episodi estorsivi e di un vasto traffico di stupefacenti nella provincia di Reggio Calabria (38).
Grazie ai collaboratori di giustizia è stata, infatti, provata l’attività estorsiva nei confronti dei responsabili della ATP - Giovanni Rodio S.p.A. di Milano, la società incaricata delle trivellazioni e dei sondaggi idrogeologici nel corso degli studi di fattibilità del Ponte sullo Stretto, da parte di Ciccio Ranieri, boss di Campo Piale, legato al clan Imerti (39).
Per questa estorsione, Ciccio Ranieri è stato condannato in appello a tre anni e quattro mesi di reclusione; ad accusarlo, è stato il pentito di mafia Maurizio Marcianò, che ha pure identificato i dirigenti della società che gli avevano versato alcuni milioni di lire. L’atteggiamento dei funzionari della Rodio S.p.A. è stato scarsamente collaborativo e in sede di dibattimento è accaduto perfino che il capo cantiere dell'impresa, arrivato dall'estero per testimoniare, nonostante l’ammonimento del presidente della Corte, insistesse nel non riconoscere l'imputato Ranieri (40).
Cap. 2 – Messina, il Ponte e i Poteri Occulti
Lo Stretto di Messina, snodo degli interessi criminali
Molto si è scritto sulla potenza criminale della ‘ndrangheta e sulla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico della Calabria. Un po’ meno si sa delle organizzazioni criminali esistenti nel territorio messinese e solo dopo lo scoppio del cosiddetto ‘Caso Messina’ nell’inverno-primavera del 1998, mass-media, inquirenti e membri della Commissione parlamentare antimafia hanno iniziato ad approfondire il ruolo e la portata della mafia della città dello Stretto. E’ opportuno un approfondimento per comprendere a pieno il contesto criminale in cui dovrebbe sorgere la grande infrastruttura per il collegamento tra i promontori di Scilla e di Cariddi.
E stata ancora una volta la Direzione Investigativa Antimafia ad analizzare opportunamente il ruolo storico giocato da Messina per l’alleanza strategico-operativa delle cosche siciliane e delle ‘ndrine calabresi. Le risultanze delle indagini hanno accertato che grazie alla sua posizione geografica, la provincia di Messina rappresenta uno “snodo vitale”, una sorta di “area comune”, non solo per l’economia siciliana ma anche per gli interessi di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta.
La provincia di Messina, scrive la DIA, è “caratterizzata da vivaci e complesse dinamiche criminali locali in cui si evidenziano costanti interferenze mafiose di diversa estrazione e provenienza che, tuttavia, non sembrano mirare alla impostazione di un modello di struttura criminale verticistico con competenza su tutto il territorio della provincia. Si registra l’influenza di circuiti malavitosi collegati alla Calabria, anche in funzione di proiezioni verso zone ad elevata criminalità mafiosa del catanese e del palermitano, contigue a quella messinese”.
Storicamente la “massiccia infiltrazione” nel territorio peloritano dei Corleonesi e dei clan catanesi è riferibile ai primi anni ‘80, mentre nel corso degli anni ‘70, la città dello Stretto era inserita a pieno titolo nella sfera di influenza della ‘ndrangheta calabrese. In quegli anni i boss dei gruppi emergenti della criminalità messinese erano “immediatamente sottordinati” ai capi storici della ‘ndrangheta quali Antonio Macrì di Siderno, Girolamo Piromalli di Gioia Tauro e Domenico Tripodo di Reggio Calabria. La città ed il suo hinterland furono trasformati nel luogo favorevole alla permanenza dei latitanti, alcuni affiliati persino ai gruppi camorristi campani (ad esempio il clan Misso, coinvolto nella strage al rapido 804 dell’antivigilia di Natale del 1984).
Nel sottolineare la sinergia criminale della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra, accanto alle più pericolose organizzazioni criminali internazionali e alle aree ‘grigie’ della finanza e della politica, la DIA ha specificato che in quest’ambito Messina è stata assunta a ‘snodo di traffici e collegamenti’. “Si tratta di interessi che ben potrebbero giustificare uno sforzo di sottrarre il più possibile l’area della provincia di Messina all’attenzione degli organismi giudiziari ed investigativi creando una sorta di cuscinetto in cui allocare la sede di interessi comuni e di rilevante importanza strategica”. La città dello Stretto è stato punto di riferimento di un vasto traffico internazionale di armi e di riciclaggio di denaro proveniente dal commercio di stupefacenti o di proventi di tangenti finite a politici, imprenditori mafiosi, funzionari pubblici, a seguito del massiccio investimento in opere pubbliche o di edilizia turistico-immobiliare, in buona parte dal devastante impatto socioambientale. Come ha sottolineato il Procuratore della Repubblica di Messina Luigi Croce, nel capoluogo, “realtà morente sul piano imprenditoriale”, hanno trovato ampio impulso le estorsioni e lo spaccio degli stupefacenti, mentre “massicci appaiono gli inserimenti negli appalti dei lavori pubblici e nel riciclaggio di denaro, con il successivo reimpiego in attività imprenditoriali apparentemente lecite” (41).
Le indagini giudiziarie sulla cosiddetta ‘Mani Pulite dello Stretto’ hanno evidenziato che negli anni ‘80 sono state finanziate nella provincia opere pubbliche per ben 17.000 miliardi, un dato che corrisponde al 32% del valore dei finanziamenti di opere in tutta la Sicilia.
Secondo quanto raccontato alla Commissione Antimafia da Angelo Siino, il collaboratore di giustizia già ‘ministro-massone dei lavori pubblici’ di Cosa Nostra, tutti gli appalti pubblici della provincia, comprese le opere di minor rilievo, sono stati “scanditi” dalle ‘famiglie’ di Palermo e di Catania.
“Le imprese messinesi potevano competere, vincere secondo un codice governato dai due tronconi di Cosa Nostra garantendo il rispetto delle competenze territoriali delle imprese”, scrive la Commissione parlamentare nella sua bozza di relazione sul ‘Caso Messina’.
“Tale Governo era pagato con una sorta di tassa che derivava dai proventi dell’appalto. Le imprese che pagavano potevano continuare a svolgere la propria attività. Quelle che venivano dichiarate ‘insolventi’ perdevano ogni speranza di poter svolgere qualunque lavoro. (...). Questa regia occulta assicurata dalle famiglie siciliane e calabresi spiega la relativa tranquillità ‘militare’ del territorio messinese.
Ma questa pace, interrotta di tanto in tanto da regolamenti di conti sanguinari, era pagata con il prezzo altissimo della perdita di quel livello minimo di legalità, di trasparenza, che fanno di un mercato qualunque un’area del libero confronto tra energie economiche che si confrontano su un terreno di pari opportunità”.
Nonostante la Commissione antimafia eviti ogni classificazione, è indubbio che questo sistema abbia prodotto quell’”interazione tra le organizzazioni criminali e il blocco sociale a composizione interclassista, egemonizzato da strati illegali-legali” proprio della cosiddetta ‘borghesia mafiosa’, nell’accezione dei maggiori studiosi in materia (42) .
La fitta rete tra poteri forti
Una delle contraddizioni più stridenti di Messina è stata sottolineata ancora dalla Commissione parlamentare antimafia: è quella che ha per oggetto “gli intrecci di interessi, le alleanze e persino i legami di parentela ai livelli più alti di responsabilità della vita istituzionale”. “Una tendenza al condizionamento della vita politica, sociale, economica, giudiziaria, culturale, accademica – continua il documento dell’Antimafia – tanto più efficace quanto più grande si manifestino i legami, gli intrecci tra le istituzioni che contano: la magistratura da un lato, il mondo accademico, quello economico e finanziario dall’altro”.
A Messina, spesso, ampi settori della magistratura hanno ostentato familiarità e amicizia con il potere politico ed imprenditoriale. Negli anni ‘90 si è verificato che nella poltrona più alta della Procura sedesse uno stretto congiunto del Rettore dell’Università, al centro di delicate indagini perché socio di un’azienda a conduzione familiare che ha fornito farmaci al Policlinico universitario a prezzi sovradimensionati. Le recenti inchieste della Procura di Catania hanno evidenziato un vasto circuito di contiguità e collusioni tra importanti magistrati giudicanti e inquirenti del distretto di Messina e i maggiori boss criminali dello Stretto e finanche la concertazione di una strategia di depistaggi e falsi pentitismi tesi alla protezione della cupola politico-affaristica-mafiosa della provincia. Soffermandosi proprio sul distretto giudiziario peloritano, la Commissione antimafia ha evidenziato “conflitti profondi, divisioni irrimediabili, guasti talmente forti da mettere in discussione la certezza dei più elementari diritti alla giustizia che spettano ad ogni comunità democratica, ad ogni consorzio civile”.
Nel sentire comune, a Messina ‘giustizia non è mai stata fatta’; corruzioni, omissioni, benevolenze, superficialità in indagini e sentenze sono sotto gli occhi di tutti, e continuano ad essere oggetto di procedimenti giudiziari e delle attività ispettive del Consiglio Superiore della Magistratura. La sfiducia nella Giustizia ha pesato come un macigno sulle possibilità di sviluppo democratico di un’intera collettività.
Il crocevia dell’eversione neofascista e della massoneria deviata
La relazione della Commissione antimafia, che pure ha il pregio di aver messo le dita su alcune delle piaghe di Messina (malaffare nell’Università, caso giustizia, inquietante gestione di alcuni pentiti, ecc.), ha preferito non analizzare altri elementi che pure hanno favorito il fenomeno mafioso e l’instaurarsi di un blocco di potere che nelle sue dinamiche, per certi aspetti, appare similare ai gruppi dominanti nelle narcodemocrazie dell’America Latina.
Il Comitato per la pace e il disarmo unilaterale di Messina, pubblicando nel 1998 il volume ‘Le mani sull’Università’, ha denunciato come per l’ingresso in città della criminalità mafiosa alla fine degli anni ‘60, sia stato centrale il legame dei gruppi criminali con le organizzazioni di estrema destra (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale) che operavano in quegli anni a Messina grazie alle coperture di ampi settori della magistratura e delle autorità di pubblica sicurezza.
Alle medesime conclusioni è giunta recentemente la Procura di Messina rinviando a giudizio decine di affiliati al clan di Africo dei Morabito, che in legame con le cosche del messinese e del barcellonese hanno cogestito i maggiori appalti infrastrutturali e di gestione dei servizi dell’Ateneo e dell’Opera Universitaria, controllando altresì il mercato a pagamento degli esami e delle lauree (Operazione ‘Panta Rei’). Nell’ateneo di Messina si è consumato un patto scellerato tra affiliati alle ‘ndrine e militanti neonazisti finalizzato alla gestione di appalti di forniture e servizi e alla realizzazione della cosiddetta ‘strategia della tensione’ per bloccare i processi di democratizzazione in atto nel paese.
La convergenza tra i poteri criminali è già stata al centro di numerose inchieste (si pensi alle risultanze cui sono giunte la Commissione parlamentare sulla P2 o le procure che indagano sulle stragi – Milano, Firenze, Reggio Calabria, ecc.). Quello che non si sapeva è che Messina ha avuto un ruolo strategico all’interno del panorama eversivo nazionale, anche grazie al fatto che in città si sviluppò parallelamente un’altissima concentrazione di logge massoniche ‘ufficiali’ e ‘deviate’ (43).
E’ stata la stessa Direzione Investigativa Antimafia a sottolineare come a Messina la massoneria potrebbe essere stata “il canale di collegamento con ambienti politico-affaristici di altissimo livello, normalmente non alla portata delle cosche tradizionali”.
Nell’area dello Stretto hanno operato importanti iscritti alla P2 di Licio Gelli, tra cui ex questori ed ex comandanti dell’Arma e il nucleo più numeroso del sud Italia di appartenenti all’organizzazione militare segreta Gladio (44). Senza enfasi è possibile affermare che molti dei segreti della storia della Repubblica passino da Messina. Alcuni dei protagonisti della stagione delle bombe nell’università negli anni ‘70, sono stati condannati per le grandi stragi politico-mafiose del ’92-’93, mentre altri sono stati indagati all’interno dell’inchiesta, oggi archiviata, sui cosiddetti ‘Sistemi criminali’, i mandanti coperti della strategia destabilizzante degli ultimi anni, tra massoneria, servizi segreti ed alta finanza. Come vedremo più avanti, perlomeno uno di questi personaggi è stato in relazione con i maggiori gruppi finanziari ed industriali che concorrono alla realizzazione del Ponte sullo Stretto.
Messina metafora del Mezzogiorno senza sviluppo
Messina ha così assunto il ruolo di centro nevralgico per l’accumulazione e il riciclaggio di denaro sporco; è il luogo dove si è fatta asfissiante la concentrazione dei poteri economici e criminali; è l’area strategica per la concertazione di progetti lesivi dello sviluppo democratico del paese, protagonisti le mafie siciliane e calabresi e quelli che impropriamente vengono definiti ‘poteri occulti’, le logge massoniche, alcuni gruppi di derivazione neofascista e certi segmenti paraistituzionali presumibilmente legati ai servizi segreti ‘deviati’. Ma più che il teatro di una spy story dai confini indefinibili Messina è forse solo una metafora di un Sud asservito ad un modello di sviluppo che ha dilapidato immense risorse del territorio, ha visto il trasferimento a Nord d’inestimabili capitali finanziari e di saperi, ha accresciuto la disoccupazione e consegnato intere aree al dominio della borghesia mafiosa.
La radiografia tracciata dal CENSIS nel suo rapporto del marzo 1998 su ‘Legalità e sviluppo a Messina’, evidenzia come la città dello Stretto sia caratterizzata da buona parte dei fattori socioeconomici che hanno condannato al sottosviluppo il Mezzogiorno d’Italia. Innanzi tutto, l’esclusiva vocazione al terziario e l’alto tasso di disoccupazione (45).
A Messina, dopo la frenetica urbanizzazione degli anni Sessanta e Settanta, nell’ultimo decennio è stata registrata la fuga dal centro urbano del 2,5% della popolazione. La valutazione del CENSIS dei consumi culturali ha delineato una situazione di ‘scarsa vitalità’ e la bassa propensione alla creazione di associazioni a carattere artistico e culturale. Di contro il numero degli operatori finanziari è ben al di sopra della media nazionale, mentre la quantità di sportelli bancari è in linea con i valori nazionali (46).
Ciò, spiega il rapporto dell’istituto di ricerca è “elemento di ambiguità anziché di sviluppo, in un contesto sospettato di riciclaggio”. A questa specificità messinese si aggiungono i fenomeni tipici di tante aree del Sud, l’assenza di mobilità sociale, il sempre maggiore disagio dovuto ai processi di cattiva urbanizzazione (baraccopoli post-terremoto 1908 mai risanate, creazione di quartieri ghetto, assenza di servizi sociali e verde pubblico attrezzato), la deindustrializzazione (a Messina le tradizionali attività legate alla trasformazione agrumaria e alla cantieristica sono pressoché collassate), la crisi del settore edilizio (ambito ‘protetto’ dalle amministrazioni, che in assenza di Piano regolatore in soli 30 anni ha visto triplicare il patrimonio immobiliare della città, contro un aumento della popolazione di appena il 25%).
Il CENSIS ha posto altresì l’accento sulla ‘debolezza’ della società civile, “sia come incapacità di rappresentare pubblicamente i grandi problemi (sottosviluppo, disagio sociale, inefficienza delle istituzioni, ecc.), sia come poca disponibilità all’impegno per la soluzione dei problemi stessi”. In una realtà caratterizzata dall’arretratezza socioeconomica, ciò non può che privilegiare l’insediamento mafioso.
La città e le istituzioni di Messina hanno vissuto la ‘rimozione’ pressoché generale del fenomeno criminale. Sempre il CENSIS ipotizza che questo atteggiamento sia stato favorito da una ‘convergenza d’interessi’, “alcuni in buona fede, altri dubbi, altri sicuramente tesi a creare una copertura per una presenza che alla fine degli anni Ottanta era forte e pervasiva”. Come si vede una tesi similare a quanto denunciato dalla Direzione Investigativa Antimafia, nella sua radiografia sui processi criminali in atto nell’altra città dello Stretto, Reggio Calabria.
Questa fitta rete d’interessi piccoli e grandi ha impedito che per anni il problema della mafia a Messina emergesse nella coscienza civica. Ha altresì accelerato – aggiunge il CENSIS - l’evoluzione della rete criminale, cresciuta sull’estorsione e l’usura e “dunque sulla capacità di inserirsi nell’economia territoriale, stringendo una sempre più fitta strategia d’intervento con l’imprenditoria e ampi settori della vita politica”.
E’ nel settore del prestito usuraio che si è particolarmente realizzata la contiguità della criminalità con i settori ‘produttivi’.
Messina, oggi, si colloca al terzo posto, dopo Napoli e Roma, tra le province d’Italia più a rischio d’usura.
E il capitale d’usura non sarebbe tutto d’origine mafiosa, ma proverrebbe in parte da soggetti insospettabili, che vedono nel ‘prestito di denaro’ un investimento redditizio e a basso rischio. Questo sistema illegale ha trovato il suo migliore terreno di coltura in quei settori caratterizzati dalla gestione clientelare delle aziende di credito, dalla scarsa professionalità degli imprenditori, dalla recessione, dalla “tendenza del sistema economico a perseguire la rendita piuttosto che il rischio imprenditoriale”. E’ in questo contesto sociale perverso, frantumato, deideologizzato, che attecchisce e si sviluppa il sogno-mito del collegamento stabile tra Scilla e Cariddi.
Una nuova cattedrale per il deserto meridionale
Il polo siderurgico di Gioia Tauro, l’Italsider di Bagnoli e Taranto, i poli chimici siciliani di Gela, Milazzo, Priolo. Per decenni le grandi concentrazioni industriali altamente inquinanti o le megainfrastrutture sono state le uniche ricette del ‘modello di sviluppo’ proposto per il Mezzogiorno. Il Ponte, in linea con il passato, è la panacea offerta alla gente dello Stretto, chimera “capace di enormi ricadute economiche ed occupazionali e di accelerare la crescita socioeconomica e l’integrazione delle popolazioni dell’area dello Stretto”. “Quando il manufatto sarà pronto – ha dichiarato enfaticamente il neoministro delle infrastrutture Pietro Lunardi – si registrerà una trasformazione del territorio straordinaria sotto i profili urbanistico, economico e sociale” (47).
Come rilevato dal CENSIS, la filosofia che sta dietro il progetto del Ponte è la stessa che vede nella grande opera pubblica la chance privilegiata di riscatto del Mezzogiorno: “Una filosofia niente affatto nuova, e che ha per lungo tempo guidato la politica degli interventi pubblici nel Meridione. Una filosofia che ha portato ad una serie di storiche disfatte dello Stato nella battaglia per lo sviluppo del Sud”. Filosofia, prosegue il CENSIS, dominata da alcune dinamiche perverse:
“la cultura delle inaugurazioni contro quella delle manutenzioni (realizzata l’opera ne si trascura la gestione); la tendenza al gigantismo a scapito di una diffusione degli interventi; la tendenza a posizionare le opere sulla base di considerazioni elettorali o assistenziali e non nel quadro di un progetto organico di sviluppo; la tendenza a considerare l’opera pubblica come un pretesto per l’erogazione di rendite a più livelli; l’asistematicità dell’intervento; l’incertezza dei finanziamenti”.
Il Ponte assume così l’aspetto di un’imponente ‘Cattedrale sullo Stretto’, o più correttamente di un’infrastruttura che accelera il processo di ‘desertificazione’ dei trasporti del sud Italia, dove restano incomplete le reti autostradali e ferroviarie e insufficiente la viabilità secondaria (specie in Calabria e Sicilia), e dove si è ancora lontani dal definire un progetto di sistema delle comunicazioni, che punti al rilancio della rete portuale e del cabotaggio. Il sogno-modello del Ponte - e non è casuale - si afferma nel momento stesso in cui nell’area dello Stretto è in atto il progressivo smantellamento del sistema di trasporto pubblico delle ferrovie a favore delle compagnie private in mano ad imprenditori assistiti, ben protetti dal potere politico locale e nazionale, strenui oppositori d’ogni politica d’integrazione del sistema dei trasporti da e verso la Sicilia.
I cavalieri neri dello Stretto
L’attraversamento dello Stretto si è così trasformato nel Pozzo di San Patrizio di due potenti gruppi armatoriali, opportunisticamente consorziatosi: sono essi che guardano con sempre più interesse alle opere di finanziamento e di realizzazione di una megainfrastruttura tra Scilla e Cariddi. Da una parte, in Calabria, i Matacena della Caronte S.p.A. (48), con il patriarca Amedeo senior, passato alla storia dell’Italia repubblicana per essere stato uno dei maggiori finanziatori della rivolta di Reggio Calabria nel 1970 (49). Dall’altra il gruppo Franza, comproprietario della Tourist Ferry Boat, la seconda grande impresa che opera tra Messina e Villa San Giovanni e che nel solo anno 2000 ha fatturato con il trasporto del gommato oltre 60 miliardi di lire (50).
Due società armatoriali che una recente inchiesta della Procura di Messina ha provato essere state assoggettate per anni al pagamento del pizzo dalla ‘ndrangheta calabrese, in particolare dal gruppo guidato dal boss di Archi Paolo De Stefano, e dalle cosche messinesi guidate da Domenico Cavò, Salvatore Pimpo e Mario Marchese. Le dazioni annue sarebbero state di oltre mezzo miliardo di lire, a cui si sarebbe aggiunta l’assunzione di amici e parenti di uomini affiliati alle cosche. La Caronte e la Tourist si sarebbero sottoposte silenziosamente al sistema estorsivo pur di accrescere in piena tranquillità i propri fatturati con il monopolio del trasporto di auto e tir tra Messina e Villa San Giovanni (51).
Per anni si è creduto che fossero i ‘signori del traghettamento privato’ i rappresentanti locali di quei “poteri occulti” che si sarebbero opposti alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. In realtà è stato il contrario. Con il Ponte i due gruppi armatoriali hanno tutto da guadagnare, ed in vista della sua realizzazione sono state riorganizzate società ed holding ed avviate invadenti strategie di mercato e d’immagine.
La famiglia Matacena, in particolare, ha tentato di entrare direttamente nella gestione delle opere relative all’attraversamento stabile dello Stretto di Messina, costituendo ad hoc la Società Ponte d’Archimede (presidente Elio Matacena, figlio di Amedeo senior) e brevettando il progetto di un ponte sommerso, ancorato ai fondali da una serie di tiranti metallici. Il progetto di fattibilità tecnica è stato presentato per conto delle società Saipem, Snamprogetti, Spea e Tecnomare, ha ricevuto cospicui finanziamenti da parte dell’Unione europea ed ha visto il coinvolgimento del Politecnico di Milano e dell’Università Federico II di Napoli. Tuttavia l’ipotesi di un ponte semi sommerso è stato scartato dalla Società Stretto di Messina che ha preferito l’alternativa del ponte sospeso (52).
Ciò non ha significato la resa finale del gruppo armatoriale e attraverso Amedeo Matacena junior, eletto parlamentare di Forza Italia nel ’94 e nel ’97, è stata intrapresa una battaglia nelle maggiori sedi istituzionali contro l’ipotesi ‘ponte sospeso’, a difesa del progetto del ‘ponte d’Archimede’. Amedeo Matacena junior è perfino giunto a scrivere direttamente a Silvio Berlusconi per chiedere di “approfondire i motivi che hanno sempre privilegiato il progetto Ponte a scapito di un tunnel collegante lo Stretto” e ad invitare, l’allora ministro dei lavori pubblici Antonio Di Pietro, a considerare “i progetti relativi al tunnel dello Stretto di Messina che costano un terzo rispetto al ponte e hanno un impatto ambientale meno dannoso” (53).
Gli interventi dell’ex deputato di Forza Italia non sono stati proficui e presto l’intero partito-azienda ha preso le distanze non solo dall’ipotesi progettuale del gruppo Matacena, ma perfino dello stesso Amedeo junior, non ricandidato alle ultime politiche. Hanno certamente pesato in questa scelta le gravi accuse di contiguità con la criminalità organizzata calabrese di cui è stato vittima il politico-imprenditore dello Stretto. Accuse finite al vaglio del tribunale di Reggio Calabria che nel marzo 2001 ha condannato l’on. Amedeo Matacena junior, a cinque anni e quattro mesi per associazione mafiosa e voto di scambio con le cosche. Per i giudici, è stata dimostrata “una perfetta sintonia d’intenti del Matacena sia con le cosche reggine sia con quelle delle altre aree calabresi di maggior peso criminale, dalla Piana di Gioia Tauro al cosentino” e la “rilevanza e influenza nella risoluzione di questioni interne alla ‘ndrangheta”. Nella sentenza di condanna di Amedeo Matacena, i giudici hanno descritto i rapporti “accertati sin dalla giovinezza” con il boss Paolo De Stefano (54), le “frequentazioni affettuose” con le famiglie Alvaro e Mammoliti e gli “interventi e l’assistenza” in sede istituzionale e giudiziaria a favore del clan Rosmini-Serraino (55).
Amicizie pericolose
“Matacena – si legge nel dispositivo di sentenza del Tribunale di Reggio Calabria – era per le sue qualità familiari ed economiche, ritenuto idoneo a rivestire direttamente cariche pubbliche elevate per la realizzazione dei propri interessi” (56). In precedenza Amedeo Matacena junior era stato accusato dal pentito Rocco Nasone di averlo incontrato in occasione delle elezioni amministrative del 1988 e di aver ricevuto 10 milioni per sostenerlo elettoralmente. Alle successive elezioni regionali, il Matacena si sarebbe recato frequentemente a Scilla per incontrare gli affiliati Vincenzo e Pasquale Gaietti; secondo un collaboratore di giustizia di Sibari, il Matacena avrebbe inoltre partecipato nell’aprile 1992 ad una cena elettorale assieme ad altri mafiosi in favore del candidato liberale Attilio Bastianini (57).
Stando al collaboratore Pasquale Nucera, affiliato al clan Iamonte di Melito Porto Salvo, Amedeo Matacena junior, nel settembre 1991, qualche mese prima della campagna elettorale che avrebbe segnato l’avvento della Seconda repubblica, sarebbe stato tra i partecipanti della riunione annuale delle famiglie della ‘ndrangheta presso il santuario della Madonna dei Polsi in Aspromonte. “Era presente – ha dichiarato Nucera - seppure defilato, Matacena junior ‘il pelato’, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace”. Il vertice sarebbe stato di rilevanza strategica e vi sarebbero intervenuti, tra gli altri, esponenti mafiosi di Canada, Australia, Stati Uniti e Francia e uno strano personaggio presumibilmente legato ai servizi segreti. Nel corso della riunione, sempre secondo il Nucera, il boss calabrese Francesco Nirta avrebbe fatto riferimento all’inizio di una campagna per la conquista del potere politico, grazie ad “uomini nuovi per formare un partito che sia espressione diretta della criminalità mafiosa da portare al successo elettorale attraverso una campagna terroristica” (58). Sei mesi più tardi avrebbe preso il via la lunga stagione delle stragi, gli assassinii dei giudici Falcone e Borsellino prima, gli attentati a Roma, Firenze e Milano dopo.
"Sulle dichiarazioni dei pentiti contro di lui ci sono riscontri di tutti i generi", ha rilevato il procuratore di Reggio Calabria Salvatore Boemi. "Il rapporto fra Matacena e la mafia è organico. Lui mette in contatto imprese e clan e in cambio chiede voti. È riuscito a imporre come vicepresidente della Provincia uno come Giuseppe Aquila, barista della Caronte e nipote di Demetrio Rosmini, boss dell'omonimo clan che nella guerra di mafia dei primi anni Novanta si alleò con lo schieramento Serraino-Condello-Imerti, contro la potente famiglia De Stefano" (59).
La gestione del servizio bar-ristorazione a bordo delle unità navali della Caronte S.p.A., presso cui era impiegato l’Aquila, era stato affidato dai Matacena prima a Bruno Campolo e successivamente al figlio Giuseppe Campolo. Bruno Campolo è stato condannato a otto anni di reclusione per traffico di droga, ma neanche dopo la condanna "venne a mancare il rapporto di fiducia con la famiglia Matacena", come segnalano i magistrati reggini che hanno indagato sull’ex parlamentare di Forza Italia.
Anche al fratello Elio Armando Matacena, presidente della Società Ponte d’Archimede, sono state contestate relazioni d’affari con personaggi chiacchierati. In particolare egli è stato titolare del 51% delle azioni della Sogesca, società di cui il restante 49% era nelle mani di Giancarlo Liberati, esponente locale di Forza Italia e, secondo i magistrati, “uomo della ‘Ndrangheta, legato ai Molè e ai Piromalli di Gioia Tauro” (60).
La Sogesca era stata fondata con il nome di In.co.tur e lo scopo societario prevedeva la fornitura di servizi navali; poi si era trasformata in Sogesca per la gestione degli appalti nel settore edile, ottenendo il subappalto per la costruzione della Scuola allievi carabinieri di Reggio Calabria. Nel 1997 la società fu dichiarata fallita ma la successiva inchiesta rivelò una serie di presunte irregolarità contabili e amministrative. A pesare sui bilanci in rosso una lunga serie d’assunzioni per fini clientelari ed elettorali. Per il fallimento della Sogesca, il giudice del Tribunale di Reggio ha deciso recentemente il rinvio a giudizio di Elio Armando Matacena, del fratello Amedeo junior e di altri sei imputati. Un procedimento avviato in stralcio all’inchiesta sulla bancarotta dell’azienda edile, relativo ad una presunta estorsione ai danni della società Edilmil e che vedeva sotto accusa l’ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Liberati e l’ex vicepresidente della Provincia, Giuseppe Aquila, si è invece concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati (61).
L’impero dei Franza
Sono sicuramente state meno esplicite e più coperte le “attenzioni” relative alla realizzazione del Ponte del secondo gruppo armatoriale dello Stretto, quello con sede nella città di Messina. Eppure anche la famiglia Franza concorre a partecipare al grande banchetto degli appalti e dei subappalti.
Meno nazionalmente noti dei ‘soci’ Matacena, i Franza sono a capo di un vero e proprio impero economico-finanziario, che dal settore del traghettamento privato in Sicilia si estende a quello industriale, alla cantieristica (62), all’edilizia privata (63) e al settore turistico-alberghiero, dove grazie alla controllata Framon Hotels, i Franza gestiscono in tutta Italia diciotto alberghi, con un giro d’affari di 100 miliardi e 600 dipendenti. I Franza hanno creato anche società per la gestione dei Beni Culturali e dei Servizi multimediali (Tourinternet e Datacom). Tra le proprietà della famiglia, ci sono immobili per un valore di oltre trenta miliardi e pacchetti azionari della maggiore emittente radiofonica delle città di Messina e Reggio Calabria (Antenna dello Stretto) e d’importanti società sportive locali, in particolare del Messina Calcio che milita in serie B (64).
Insomma, una vera e propria holding, di cui è però la gestione del traghettamento del gommato l’attività più redditizia. Un vero e proprio moltiplicatore di utili e profitti che erroneamente si ritiene ‘a rischio’ nel caso in cui entrasse in funzione il Ponte. In realtà la megainfrastruttura non ha fatto mai paura al gruppo messinese. Nel 1986, quando era in corso un vero e proprio scontro politico tra le classi dirigenti calabresi e siciliane relativo alla reale fattibilità dell’opera (65), intervenne pubblicamente a difesa del progetto del Ponte, l’ingegnere Giuseppe Franza, fondatore dell’omonimo impero finanziario. “Come operatore economico – dichiarò Franza - ritengo che un’opera così grandiosa aiuti il nostro territorio, risolva il problema del collegamento con l’altra sponda e crei comunque un così vasto movimento da rivoluzionare tutta la nostra realtà economica e sociale. Gli effetti positivi si vedranno già durante la costruzione a parte poi, ad opera ultimata, il beneficio del richiamo turistico e ambientale nonché l’interesse culturale per un manufatto di alta ingegneria e di tecnica specializzata”. Nell’occasione l’ingegnere Franza espresse inaspettatamente il proprio dissenso verso l’ipotesi progettuale sostenuta dal socio Matacena. “Contrario mi ritengo al tunnel che trovo un congiungimento anomalo, che non potrà mai dare al territorio gli stessi benefici del ponte sospeso” (66).
Gli farà eco, otto anni più tardi, la consorte Olga Mondello Franza, succeduta alla guida della holding dopo la morte del fondatore. “Per noi, la costruzione del ponte sarebbe un grande business. Durante i dieci anni occorrenti alla realizzazione dell’opera il nostro lavoro aumenterebbe notevolmente. E poi lavoreremmo a pieno ritmo per diversificare l’attività. Per noi il problema non si pone. Il Ponte sullo Stretto non ci fa paura” (67).
Le parole non permettono fraintendimenti. Il gruppo Franza, in altre parole, è pronto per concorrere direttamente alla realizzazione dell’opera, sia per capitalizzare il presumibile aumento del traffico nello Stretto in concomitanza dei lavori di esecuzione, e sia per ampliare la quota del proprio mercato quando, a Ponte ultimato, l’alto costo del passaggio attraverso l’infrastruttura spingerà sempre più automobilisti a scegliere la fedeltà con il traghettamento. E’ forse casuale che sia stata proprio l’amministratrice della Tourist Olga Franza, a fare da anfitrione del ministro Pietro Lunardi, durante la sua visita a Messina nell’aprile 2002 ai luoghi in cui dovrebbe essere realizzato il Ponte sullo Stretto? (68).
E come spiegare che tale disponibilità si sia ripetuta qualche mese dopo durante il sopralluogo tra Scilla e Cariddi del neopresidente della Stretto di Messina Giuseppe Zamberletti e dell’intero consiglio d’amministrazione al seguito?
In realtà al grande appuntamento del Ponte, la potente famiglia dello Stretto si è preparata a dovere, innanzi tutto promuovendo una grande intesa con le maggiori imprese di costruzioni della provincia di Messina, fondando nel giugno 1997, il Consorzio Costruttori Messinesi per competere con le maggiori imprese del Nord nel settore delle grandi opere pubbliche in via di finanziamento nella provincia di Messina e per la gestione di società miste per lo sviluppo dei servizi pubblici e privati. In realtà il nuovo consorzio appare lo strumento più idoneo per accrescere il peso dell’imprenditoria locale nella contrattazione diretta degli appalti e dei subappalti per la realizzazione del grande manufatto (69).
Per non dimenticare che attorno al Ponte dovrebbero sorgere infrastrutture turistico-immobiliari e ‘culturali’, settori dove il Gruppo Franza non conosce avversari nell’area dello Stretto.
Banche e finanziarie per la cementificazione dello Stretto
Ma è particolarmente nel settore bancario e finanziario, strategico per la reperibilità di parte dei finanziamenti necessari alla realizzazione del Ponte sullo Stretto, che il gruppo Franza è intervenuto attivamente e con lungimiranza. Da sempre vicini agli uomini di vertice dei maggiori istituti presenti nel capoluogo dello Stretto (70), attraverso la Cofimer, cassaforte finanziaria del gruppo, i Franza hanno acquisito nei primi anni ’90 lo 0,51% del pacchetto azionario della Banca Commerciale italiana (COMIT), successivamente entrata a far parte del Gruppo Banca Intesa Bci (71).
Nel 1999 la famiglia Franza ha fatto ingresso nella cordata d’imprenditori siciliani (72) e istituti di credito del Nord (le banche popolari di Vicenza, Novara e Verona), sorta per concorrere all’acquisizione di Medio Credito Centrale, e attraverso esso, della controllata Banco di Sicilia. Un’operazione arenatasi a causa dell’intervento della Banca di Roma che è riuscita a battere la concorrenza e ad annettersi il prestigioso istituto bancario dell’isola. Il gruppo armatoriale messinese tuttavia, è riuscito ad inserire un proprio rappresentante (Pietro Franza, figlio secondogenito dei consorti Giuseppe e Olga Mondello), nel consiglio d’amministrazione della Banca di Credito Popolare di Siracusa, entrata a far parte del gruppo che fa capo alla Banca Antoniana Popolare Veneta (73).
E’ da rilevare come alla direzione generale dell’Antonveneta e alla vicepresidenza della Banca Popolare di Siracusa sieda il dottor Silvano Pontello, già addetto alla presidenza della Banca Privata di Michele Sindona, il finanziere originario della provincia di Messina che mise a servizio di Cosa Nostra e dei poteri eversivi internazionali il proprio impero bancario.
Ma il vero colpo nell’universo creditizio, il Gruppo Franza lo ha messo a segno di recente inserendosi in Consortium, la finanziaria cui aderisce un gruppo d’imprenditori e di banche italiane e che nel marzo 2001 ha scalato con successo l’impero di Mediobanca, acquisendone il 14,5% del pacchetto azionario. Sono due holding lussemburghesi, la Work and Finance e la Tourist Internacional, società riconducibili al Gruppo Franza di Messina, a possedere attualmente il 5% delle quote della Consortium (74).
Quest’operazione fa della famiglia messinese uno dei maggiori centri finanziari del paese. Oggi i Franza operano attivamente sulla Borsa di Londra grazie alla Sofig Invest (75), e sempre attraverso la Cofimer controllano il pacchetto di maggioranza di un’importante società di gestione finanziaria, la Marathon Holding, con un patrimonio di oltre 150 miliardi di lire (76).
Che il sistema bancario guardi con estrema attenzione all’ipotesi di fattibilità del Ponte non è un segreto. Nel settembre del 2001, presso il ministero delle infrastrutture diretto da Pietro Lunardi, si sono tenute le audizioni di una decina di banche nazionali ed estere, interessate a vagliare la finanziabilità dell’infrastruttura. Tra i principali istituti presentatisi la Banca Opi (S.Paolo-Imi), la Abn Amro, la Banca Intesa Bci ed Unicredito: come abbiamo visto in Banca Intesa è confluita la Banca Commerciale di cui è azionista la Cofimer dei Franza, mentre Unicredito è socia in Consortium-Mediobanca delle holding lussemburghesi degli armatori messinesi.
C’è infine un’ultima ‘coincidenza’ che conferma la spinta pro-infrastruttura dei maggiori istituti di credito. Recentemente la Banca Popolare di Lodi ha deliberato lo stanziamento di 500 milioni di euro di crediti agevolati a favore delle imprese interessate alla costruzione del Ponte di Messina. La Popolare di Lodi, oggi il nono gruppo bancario d’Italia, ha acquisito ben sette istituti di credito in Sicilia, tra cui la Banca del Sud di Messina, presieduta dal defunto on. Giuseppe Merlino, sindaco andreottiano di Messina negli anni ’70, poi deputato all’Assemblea siciliana e assessore regionale, ritenuto uno dei ‘soci ombra’ del Gruppo armatoriale dei Franza (77).
Vedremo in seguito con quali obiettivi il sistema bancario italiano guarda alla finanziazione delle opere di realizzazione del Ponte dello Stretto e come siano forti in quest’ambito gli interessi delle industrie del cemento e quelli delle maggiori società edili nazionali.
Cap. 3 – La borghesia elettiva del Ponte dello Stretto
Monopolio dell’informazione e partito del cemento
Pur essendo rimasto ancorato alla fase preprogettuale, la megainfrastruttura per l’attraversamento dello Stretto ha già causato i primi dissesti sul tessuto sociale di Messina. Il modello-ponte ha favorito tra le forze politiche e culturali, tra gli imprenditori e la collettività, un preoccupante atteggiamento di passività, la mancanza di fantasia e di ricerca di uno sviluppo soft, autocentrato ed ecocompatibile, il disimpegno istituzionale a reperire finanziamenti per progetti alternativi, l’assoggettamento al sistema politico-clientelare dominante portavoce dell’istanza progettuale.
La scelta consociativa del Ponte che a Messina vede uniti da Alleanza Nazionale ai Democratici di Sinistra (78), i sindacati, le forze economiche e cultural-educative, l’Ateneo universitario, i club service, finanche i massimi vertici della Chiesa locale - con la sola esclusione e conseguente marginalizzazione e criminalizzazione dei circoli di Verdi e Rifondazione Comunista - ha reso impossibile la dialettica democratica sul futuro della città. Il ‘ponte immaginato’ è causa e conseguenza stessa della crisi di democrazia a Messina.
Assai raramente i mass-media hanno dato voce a chi ha espresso pareri scientifici controtendenza e manifestato dissenso e perplessità sulle compatibilità socioambientali dell’opera, sulla sua fattibilità sia dal punto di vista tecnologico che sulle possibilità di reperimento degli ingenti finanziamenti necessari, e sulla dubbia vocazione occupazionale del manufatto (79).
La campagna stampa ossessiva del maggiore organo d’informazione di Messina e della Calabria, la Gazzetta del Sud, ha impedito il confronto tra le parti, ha avvelenato le competizioni elettorali, ha irresponsabilmente mistificato dati ed informazioni e demonizzato gli avversari.
“Preoccupata di smussare ogni angolo, generando oggettivamente una sorta di assuefazione verso i drammi regionali - scrive il sociologo Fulvio Mazza in un volume sul ruolo dell’editoria nel Mezzogiorno - la Gazzetta del Sud ha avuto un ruolo determinante di costruzione del consenso pro-infrastruttura e di cloroformizzazione delle coscienze e dei vissuti, disincentivando l’impegno sociale e politico delle collettività e dunque contribuendo al clima generale di apatia e insofferenza”. E’ stato “il giornale dei notabili che tarpa le ali a quel poco di società civile calabrese che esiste e che tenta di decollare” aggiunge Fulvio Mazza. “Da ‘giornale-ponte’ tra la Sicilia e la Calabria, è diventato il ‘giornale del Ponte’, sponsorizzando qualsiasi iniziativa e qualsiasi politico (dalla destra ai diessini di governo) favorevoli alla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina” (80).
L’interventismo dell’organo di stampa a favore della megainfrastruttura dello Stretto ha ragioni antiche, risponde ad interessi economici profondi neanche tanto dissimulati. Un’azione di ‘intossicazione dell’informazione’ esercitata in pieno regime di monopolio anche grazie alla fitta rete di compartecipazioni che legano la società editoriale della Gazzetta del Sud a quelle dei quotidiani ‘cugini’ dell’isola, detentori a loro volta della proprietà di quasi tutte le maggiori emittenti televisive siciliane. Nei fatti non esiste testata nel sud Italia che non intrecci i propri azionisti con quelli del ‘giornale del Ponte’ e se poi si pensa agli accordi di mercato per la coproduzione delle pagine di politica interna ed estera con i quotidiani del Gruppo Monti (La Nazione di Firenze, Il Resto del Carlinodi Bologna, Il Giorno di Milano) o a quelli per la stampa presso le industrie tipografiche siciliane dei maggiori quotidiani nazionali, possiamo affermare che la forza monopolistica della società editoriale che sta dietro la Gazzetta del Sud è invadente quasi quanto l’’anomalia’ italiana rappresentata dal gruppo politico-economico di Mediaset. Basterà un’occhiata alla proprietà e agli uomini che siedono nel consiglio d’amministrazione della Gazzetta per comprendere come mai il quotidiano e i suoi soci-alleati della carta stampata si siano caratterizzati per il furore nella crociata a favore di quattro immense torri ed una lunga campata di cemento armato ed acciaio che sconvolgeranno il paesaggio dello Stretto (81).
Nino Calarco l’Uomo del Ponte
A simbolizzare il ruolo della Gazzetta del Sud di portavoce ideologico del ‘partito del Ponte’ c’è la figura del suo più che trentennale direttore Nino Calarco, sino al dicembre dello scorso anno presidente della Società Stretto di Messina (82).
La sua nomina ai vertici della società cui è stata affidata la progettazione della megainfrastruttura, risale all’estate del 1990, con decreto dell’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, persona a cui Calarco è rimasto particolarmente legato, al punto da invitarlo, insieme all’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ad un importante appuntamento pubblico a Messina nella primavera del 1997 (83).
Nino Calarco non ha mai nascosto le tendenze politiche ultramoderate ed ha ricoperto per una legislatura il ruolo di senatore della repubblica, dal 1979 al 1983, nelle file della Democrazia Cristiana (84). E’ la stessa ala moderata del partito a volerlo tra i propri membri nella costituenda Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presidente un’altra DC, l’on. Tina Anselmi. Eppure il quotidiano diretto da Calarco si era caratterizzato fino allora per numerosi articoli contro i giudici che indagavano sulla superloggia di Licio Gelli definiti "filocomunisti", e di cui s’ipotizzava la partecipazione ad un ipotetico 'complotto'.
Nonostante la scoperta delle liste della P2, il quotidiano siciliano continuerà a pregiarsi dei fondi e degli editoriali di alcuni giornalisti risultati affiliati, in particolare di Alberto Sensini, già capo dell'ufficio romano del Corriere della Sera, poi direttore della Nazione (85), dell’ex parlamentare socialdemocratico Costantino Belluscio (86) e di Gustavo Selva (tessera P2 n. 1814), già direttore del Gr2 Rai, poi europarlamentare DC, oggi senatore di AN.
Nino Calarco dovette lasciare l’incarico in Commissione parlamentare a seguito dell’inaspettata non rielezione al Senato, nel 1983. Sette anni più tardi però, l’establishment governativo della prima Repubblica gli offrì la presidenza alla Stretto di Messina, società costituita nel 1981 dal Gruppo Iri-Italstat, dalle Ferrovie dello Stato, dall’ANAS e dalle Regioni Calabria e Sicilia (87).
Calarco subentrò ad un altro ex parlamentare democristiano messinese, l’on. Oscar Andò, padre dell’allora sindaco di Messina Antonino Andò; vicepresidente fu nominato Gianfranco Gilardini, in passato manager del gruppo finanziario Agnelli-Fiat, mentre ad amministratore delegato della Stretto di Messina fu insediato il dottor Baldo de Rossi (Italstat).
L'essere stato abbastanza critico a riguardo di certi atteggiamenti della società non addebitabili all'on. Andò e non solo attraverso il giornale che dirigo (...), ma soprattutto attraverso i miei interventi esterni in dibattiti, tavole rotonde, conferenze internazionali, avr forse sensibilmente contribuito a convincere l'on. Andreotti ad accogliere la proposta in tal senso delle forze politiche siciliane e calabresi, con la neutralità delle opposizioni.
E' la spiegazione che Nino Calarco ha dato delle motivazioni della scelta fatta a suo favore dall'esecutivo. Alla fin fine, si saranno detti, scegliamo uno che ci far conoscere correttamente i momenti progettuali. Infatti, oltre a dover rispondere al potere politico, Calarco dovr farlo nei confronti dei lettori della Gazzetta. E i lettori, si sa, giudicano un direttore giorno per giorno. Uno che, per professione, non è mai incline, come ogni giornalista, a tenersi niente nel cassetto...” (88).
Né Calarco, né le forze politiche di maggioranza e d'opposizione hanno avuto mai dubbi sull'opportunit che il Presidente della Stretto di Messina abbia continuato a mantenere contestualmente la carica di direttore della Gazzetta del Sud, anzi questo è stato presentato come elemento di trasparenza pubblica e di modello per raccogliere le tendenze di giudizio dei lettori-cittadini-futuri utenti del Ponte. Peccato che il sistema abbia funzionato più da fabbrica del consenso che da supervisore dei consensi-dissensi sull’operato della Società e sulla valenza dell’iter progettuale.
Ciò non ha impedito al presidente-direttore Nino Calarco di assumere ulteriori incarichi che ne hanno rafforzato il ruolo di ‘uomo del Ponte’, cementificando gli interessi del gruppo editoriale attorno all’infrastruttura. Egli è stato prima nominato direttore della Rtp-Radio Televisione Peloritana, maggiore emittente televisiva dell’area dello Stretto, e poi presidente della Fondazione Bonino-Pulejo, azionista di maggioranza della SES-Società Editrice Siciliana, comproprietaria della Gazzetta del Sud e delle due reti televisive della Rtp (89). Con il risultato che oltre a poter giudicare da sé il proprio operato e quello della Stretto di Messina, Nino Calarco e il gruppo imprenditoriale a capo delle sue testate, hanno potuto estendere il potere lobbista a favore del mostro di cemento tra il mitico Stretto di Scilla e Cariddi.
La fabbrica del consenso
C’è una vicenda che è emblematica del potere di pressione politica che è stato esercitato in regime monopolistico dagli uomini della Gazzetta del Sud a favore del Ponte e della Società che lo ha progettato, nonostante il quotidiano - nelle intenzioni di Calarco - avrebbe dovuto essere l’organo ‘neutrale’ per far “conoscere correttamente i momenti progettuali”. La vicenda è emersa in occasione di un’indagine della Procura di Reggio Calabria su un presunto caso di malasanità che nell’anno 2000 ha visto coinvolti il direttore generale dell’Asl, l’assessore regionale alla sanità, alcuni politici di vertice del centrosinistra e perfino gli affiliati alla potente cosca di Mario Audino (90).
Secondo l’accusa, a fare da “mediatore” tra i differenti protagonisti dell’affare, il noto giornalista Paolo Pollichieni, responsabile della redazione reggina della Gazzetta del Sud: per gli inquirenti era “capace di scatenare campagne di stampa a comando e di condizionare le decisioni della giunta regionale”.
Il giornalista sarebbe stato in stretto contatto con l’imprenditore Giovanni Minniti, sospettato di collusioni con la criminalità organizzata, amministratore unico della EdiIminniti, società vincitrice di appalti per decine di miliardi accanto alla CMC - Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna. I contatti di Pollichieni, ritenuto la memoria storica di tutti i fatti di cronaca nera della regione, si estendevano ai maggiori palazzi del potere nazionale, compresi ministeri e l’Alto comando dei Carabinieri (91).
Intercettando le telefonate di Pollichieni, i giudici di Reggio scoprono le frequenti chiamate ad uno dei massimi esponenti della politica nazionale,
l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Marco Minniti, successivamente passato al ministero della difesa (92). Il politico diessino è tra i maggiori sostenitori della realizzazione del Ponte di Messina, e proprio di ponte e Società dello Stretto, gli investigatori gli sentiranno parlare con Pollichieni in più di un’occasione. Durante un incontro a Scilla il 30 luglio 1999 tra il sottosegretario e il redattore della Gazzetta del Sud, quest’ultimo telefona con un cellulare al proprio direttore-presidente Nino Calarco. “La chiamo oggi perché sono qui con Marco e la voleva salutare”. Il cellulare viene poi passato al politico diessino. Calarco e Minniti parlano di politica e dell'ex presidente Francesco Cossiga, infine il direttore si rivolge per chiedere un favore: “Senti una cosa... l'unica potenza che tu non riesci a esplicare... con questi maledetti burocrati del ministero dei Lavori pubblici... ancora questo decreto del bando non c'è!”.
L’argomento in questione riguarda un bando per il finanziamento della Società Stretto di Messina, che Nino Calarco vorrebbe che fosse acquisita dall’ANAS. Della questione il direttore dice di averne parlato direttamente con il Presidente del consiglio Giuliano Amato. “E Con Giuliano Amato come è andata?” gli chiede Marco Minniti. “Favoloso, favoloso” gli risponde Calarco. “Però il problema caro Marco è che bisogna trovare nella Finanziaria un po' di spiccioli perché io debbo chiudere la società perché non ho più una lira! ... Non è che è una grossa cifra... 4... 5 miliardi... “.
Una decina di giorni più tardi Pollichieni e Minniti si rincontrano per chiamare nuovamente il direttore Calarco. Quest’ultimo ritorna sul tema del finanziamento della Stretto di Messina: “Marco, ti volevo segnalare due cose... primo che in questa Finanziaria... qualche cosa la dovete inserire... L'altro è che Bargone rema contro... ancora... dice che è andato da D'Alema... a dire... ma quale, il ponte sullo Stretto!”. Minniti interrompe per rassicurare il presidente: “Ho capito va boh... adesso vedo io...” (93).
“L'interessamento richiestomi, che io ritengo legittimo nella sostanza, non nella forma – ha spiegato Marco Minniti - era finalizzato alla concessione di fondi per il pagamento degli advisor”. “Devo precisare - ha poi aggiunto - che lo stanziamento dei fondi era stato autonomamente previsto dal ministero del Tesoro proprio per il pagamento degli advisor”. Minniti cioè, conferma di essere intervenuto istituzionalmente per perorare la causa del presidente Calarco, anche se però la decisione di pagare le parcelle ai consulenti per la progettazione sarebbe stata presa ‘autonomanente’ dall’esecutivo. “Non mi sono più interessato della questione Ponte sullo Stretto di Messina – ha concluso - ma ritengo che con l'approvazione della Legge finanziaria sia stato concesso il finanziamento necessario al pagamento degli advisor” (94).
La pubblicazione sul settimanale Panorama degli stralci delle telefonate tra il giornalista Pollichieni, il direttore Calarco e il sottosegretario Minniti e le implicite conferme dell’azione di lobbing sul governo degli uomini della Gazzetta del Sud non sono stati sufficienti a sollevare in sede parlamentare l’evidente conflitto di interessi del presidente della Stretto di Messina. Diversamente è successo due mesi più tardi, quando nel corso di un’intervista ai giornalisti Rai di ‘Sciuscià’, il sen. Calarco, nel rispondere sulla possibilità d’infiltrazione criminale nella realizzazione del Ponte arrivava a dichiarare: “ Se la mafia fosse in grado di costruire il Ponte, benvenuta la mafia”.
Il Ponte prima di tutto, perfino al di là dei confini della legalità e dei comuni valori di giustizia. Stavolta insorsero i parlamentari di Verdi e Rifondazione e alcuni Democratici di Sinistra e furono chieste le dimissioni di Nino Calarco dalla carica di presidente della Stretto di Messina. Il conflitto però durò appena qualche giorno. Il governo decise di non revocare l’incarico e Calarco rifiutò di dimettersi limitandosi a dichiarare all’Ansa di essersi “pentito di aver detto e fatto registrare quella frase” pur respingendo “con fermezza, la interpretazione capziosa e strumentale che ne è stata fatta”. “Se gli onorevoli interroganti non sono riusciti a percepire il senso della mia provocatoria affermazione – aggiunse - significa che abbiamo raggiunto il massimo dell'incultura. Non mi resta che ripetere la famosa frase di Aldo Moro ‘ma quanto sono noiosi’” (95).
Il Calarco pensiero sul possibile rapporto mafia-Ponte è certamente più che singolare e lo dimostra quanto affermato in occasione di un recente Festival dell’Unità a Messina (ottobre 1999). “Il ponte è stato contrastato dai ‘poteri forti’ – ha denunciato il direttore della Gazzetta del Sud, pur astenendosi dallo specificare chi e come si nasconderebbe dietro questi ‘poteri’. “Anche la mafia non vuole il Ponte e non vuole controlli sullo Stretto, come dimostrano i venticinque anni che non sono bastati per attivare il sistema radar Vts che farebbe scoprire tutti i traffici illeciti che vi si consumano, a partire dal contrabbando” (96). Per Calarco in pratica, la criminalità organizzata ha tutto da perdere con la realizzazione della megainfrastruttura. La militarizzazione del territorio che ne deriverebbe, impedirebbe la realizzazione dei traffici che si realizzano nello Stretto. Peccato che di questi traffici la Gazzetta del Sud non sia mai stata prodiga d’inchieste e di denunce.
La Fondazione, il Ponte ed altro ancora
Nino Calarco oltre ad aver ricoperto contestualmente il ruolo di direttore delle maggiori testate giornalistiche e televisive dell’area dello Stretto, presiede la Fondazione Bonino-Pulejo, espressione di uno dei più agguerriti gruppi politico-economico-imprenditoriali locali che ha convertito le proprie attività ‘benefiche’ a strumento di propaganda a favore della fattibilità dell’”ottava meraviglia del mondo”, il Ponte sullo Stretto di Messina.
La Fondazione prende il nome dai coniugi Uberto Bonino e Maria Sofia Pulejo, entrambi scomparsi, fondatori della Società Editrice Siciliana e della controllata Gazzetta del Sud. Una rapida occhiata alla biografia del cavaliere-industriale Uberto Bonino per comprenderne l’importanza nella recente storia del capoluogo dello Stretto. Figlio di un ammiraglio della Regia Marina, Bonino acquisì un ingente patrimonio finanziario grazie alla produzione e alla distribuzione della farina per conto del Comando Alleato sbarcato in Sicilia nel 1943, le stesse attività che consentirono ad un oscuro avvocato di provincia, Michele Sindona, a sperimentare le proprie doti affaristiche.
Alla fine della seconda guerra mondiale, Uberto Bonino fece ingresso in politica, fondando a Messina il partito liberale con il massone Gaetano Martino, futuro ministro degli esteri (97). Bonino venne eletto con il PLI nella costituente del 1946; poi fu riconfermato alle politiche del 1948. Transitato nelle file del partito monarchico, venne rieletto alle tornate del ’55 e del ’58. Dopo un breve ritiro dalla vita politica attiva, Bonino si ricandidò con successo nel ’72 con l’MSI alle elezioni per il rinnovo del Senato (98).
L’attività politica si alternò con quella di imprenditore e di filantropo; dopo una presidenza ventennale della Banca di Messina, istituto di cui Bonino ha detenuto un pacchetto di minoranza sino all’avvento di Michele Sindona (99), il cavaliere fondò la SES - Società Editrice Siciliana e nel 1973 l’omonima Fondazione, che nei disegni del senatore-editore doveva trasformarsi innanzi tutto nel centro propulsore delle attività didattiche e di ricerca dell’Università di Messina.
Oggi, la Fondazione Bonino-Pulejo è la principale entità finanziatrice delle attività didattiche e di ricerca dell’Università e di quelle culturali dell’Opera universitaria (100).
Vengono finanziate borse di studio, specializzazioni, ricerche, seminari e corsi di laurea brevi; la Fondazione ha istituito persino un Centro per il trattamento dei neurolesi in consorzio con l’Ateneo di Messina e la locale facoltà di Medicina. Per sottolineare il grado di coesione esistente tra la grande impresa editoriale meridionale e l’università, lo statuto della Fondazione prevede la presenza di diritto nel proprio consiglio d’amministrazione dei Rettori vecchi e nuovi dell’Ateneo e dell’amministratore della SES-Società Editrice Siciliana (101).
L’occupazione dell’Università da parte della Fondazione è un processo che è proseguito anche in questi ultimi anni segnati dal “rinnovamento nella legalità” voluto dal nuovo rettore Gaetano Silvestri, dopo lo scoppio del ‘caso Messina’ e della scoperta del dominio dell’Ateneo da parte delle cosche di ‘ndrangheta. Di questo bisogna dare atto alle capacità di coinvolgimento trasversale del direttore-presidente. E’ innegabile che con la guida assunta da Nino Calarco, la Fondazione Bonino Pulejo è riuscita ad allineare fedelmente docenti e ricercatori al grande ‘partito del Ponte’, con la conseguenza che l’Università di Messina è mancata ai suoi doveri istituzionali di analisi sui possibili impatti socio-ambientali, e peggio, nella ricerca di strategie alternative di sviluppo economiche per l’area dello Stretto.
Troppo spesso, così, uno dei maggiori atenei del Mezzogiorno ha legato la propria immagine al sogno progettuale della megainfrastruttura. Nel settembre del 1994, ad esempio, le Università di Messina e Reggio Calabria insieme alla Fondazione Bonino Pulejo e al Consorzio dell’Istituto Superiore dei Trasporti di Reggio Calabria hanno organizzato un convegno internazionale sui trasporti nell’area dello Stretto in cui i relatori, tutti, si sono detti favorevoli alla realizzazione del Ponte. Significativamente a concludere i lavori, è stato chiamato il direttore della Gazzetta e presidente della Società Stretto di Messina Nino Calarco.
Otto anni più tardi, in piena campagna di rilancio delle Grandi Opere e dell’ipotesi progettuale del Ponte, la Fondazione è scesa in campo accanto alle Università dello Stretto e al ministero dell’Istruzione, finanziando l’indagine del Consorzio interuniversitario Almalaurea sulla ‘condizione occupazionale dei laureati’. L’appuntamento scientifico si è trasformato in una tribuna del presidente Calarco per richiamare attorno al Ponte “l’attenzione delle facoltà di Ingegneria di Messina e di Reggio Calabria” e quella degli studenti e dei neolaureati ingegneri a cui l’infrastruttura potrà fornire “centinaia” di posti di lavoro (102).
In realtà le due facoltà di ingegneria dello Stretto si sono particolarmente distinte nell’organizzare importanti meeting ‘scientifici’ a sostegno degli elementi tecnico-strutturali del megaprogetto. E più dell’improbabile sbocco occupazionale per i propri laureati esse sperano di ottenere un riconoscimento diretto e concreto dal Ponte: il professore Aurelio Misiti, assessore regionale della Calabria e presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, uno dei maggiori sostenitori dell’infrastruttura, ha già promesso la realizzazione a Reggio della ‘Galleria del vento’ e a Messina della facoltà di Scienze dei materiali (103).
Consiglieri e consigliori dell’azienda di beneficenza
Che la Bonino-Pulejo si sia trasformata nel tempo nella Fondazione del Ponte ne è prova la mutua relazione che è intercorsa tra alcuni dei suoi maggiori rappresentanti e i consigli d’amministrazione della Società Stretto di Messina. Il caso di condivisione di cariche e ruoli dell’on. Nino Calarco non è stato, infatti, l’unico. Con lui fu nominato dal governo Andreotti, membro del C.d.A. della società pubblica, l’ex parlamentare democristiano calabrese Sebastiano Vincelli, che sino alla sua recente scomparsa, ha fatto parte del consiglio d’amministrazione della SES e della Fondazione Bonino-Pulejo.
Vincelli è stato sottosegretario ai trasporti dal 1969 al 1974, gli anni della realizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, opera che secondo lo storico Enzo Ciconte, fu “la grossa occasione colta dalle ‘ndrine calabresi per inserirsi nei lavori di costruzione, per imporre una propria presenza e, in definitiva, per accrescere le proprie possibilità economiche oltre che per affermare, in modo clamoroso e pubblico, la propria forza e il proprio potere” (104).
Fino agli anni ’80, segretario particolare di Sebastiano Vincelli è stato Vincenzo Cafari, pluripregiudicato per reati contro il patrimonio, definito “uno dei punti di riferimento” dei clan ‘ndranghetisti degli Avignone, dei Piromalli e dei De Stefano. Il senatore Sebastiano Vincelli, insieme al suo stretto collaboratore, l’on. Lodovico Ligato, il presidente delle Ferrovie dello Stato trucidato dalla ‘ndrangheta, compare tra i politici indicati dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro come appartenenti ad una superloggia massonica coperta di Reggio Calabria (105)
C’è un altro discusso politico calabrese che ha contestualmente legato il proprio nome alla Fondazione Bonino-Pulejo e alla battaglia per la realizzazione del Ponte di Messina. Si tratta del più volte sindaco di Palmi Armando Veneto, già DC, poi PPI, oggi Margherita, editorialista della Gazzetta del Sud e patron del ‘Premio Città di Palmi’, finanziato dal 1995 dalla Fondazione presieduta da Nino Calarco. Di Armando Veneto è nota l’attività di lobbista del Ponte; in particolare ha promosso in Parlamento l’ordine del giorno che ha sbloccato i finanziamenti per l’ultima fase della progettazione affidata alla Società Stretto di Messina.
Sul sindaco-parlamentare si sono soffermati i giudici di Reggio nella loro ordinanza sull’Operazione Olimpia: “Altrettanto memorabile fu il funerale di Girolamo Piromalli nel febbraio del 1979. Assolutamente incuranti della presenza dei fotografi (delle forze dell’ordine) capi bastone ed affiliati di tutte le consorterie calabresi resero l’estremo e doveroso omaggio al capo ormai privo di vita. A ringraziare in nome del casato Piromalli la moltitudine mafiosa presente intervenne in conclusione l’avvocato Armando Veneto noto professionista del foro di Palmi” (106).
Se per Vincelli non è stata provata l’affiliazione alla massoneria, differente il discorso per alcuni dei consiglieri d’amministrazione del gruppo Fondazione Bonino-Pulejo-Gazzetta del Sud. Consigliere del Centro Neurolesi e della Gazzetta del Sud-CalabriaS.p.A. è stato sino alla sua recentissima scomparsa, Vittorio Causarano, affiliato alla loggia massonica ‘Libertà’ del Grande Oriente d’Italia. Vittorio Causarano ha ricoperto per decenni l’incarico di dirigente per la Sicilia e la Calabria della Publikompass S.p.A., la maggiore società pubblicitaria italiana, concessionaria della Gazzetta. Fratello di Francesco Causarano, viceredattore capo della Rai, in vita l’ex dirigente della Publikompass è stato intimo amico dell’ex direttore del Tg 1 Nuccio Fava e di Eugenio Rendo, imprenditore della nota famiglia di costruttori-imprenditori catanesi.
Nel collegio sindacale della SES e della Gazzetta del Sud-Calabria S.p.A. compare anche il nome del commercialista messinese Salvatore Cacace, anch’egli massone del Grande Oriente d’Italia, dalle forti simpatie politiche per Forza Italia (107).
Cacace è stato recentemente rinviato a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sulla bancarotta della società S.p.i.d.a. - Costruzioni generali S.p.A., di cui era titolare il costruttore Cesare D'Amico. Secondo l'accusa, la S.p.i.d.a. avrebbe venduto una serie d’appartamenti distraendoli dall'asse fallimentare e quindi recando pregiudizio ai creditori (108).
I Signori del cemento
Se la Bonino-Pulejo può essere definita a ragione la Fondazione del Ponte, altrettanto forti sono le spinte pro-infrastruttura degli azionisti di minoranza della SES, editrice della Gazzetta del Sud, diretta dal presidente onorario della Società Stretto di Messina. Una cospicua quota del pacchetto azionario della società editrice è in mano, infatti, al padrone del quotidiano catanese La Sicilia, Mario Ciancio, il potente imprenditore già presidente delle Federazione Nazionale degli Editori Italiani ed azionista del terzo grande quotidiano dell’isola, il Giornale di Sicilia di Palermo. Poco conosciuto è l’attivismo degli editori ‘cugini’ nel settore dell’informazione meridionale e d’oltreadriatico. Nel 1997, ad esempio, la SES in cordata con La Sicilia, ha acquisito il controllo della Edisud di Bari che pubblica la Gazzetta del Mezzogiorno e, in Albania, la Gazeta Squiptare. Il segno evidente di un interesse ad essere presenti nelle aree a maggiore previsione d’investimento infrastrutturale e d’intervento dei contributi europei ‘per lo sviluppo’.
Ma è tuttavia la presenza tra gli azionisti della SES del maggiore produttore mondiale di cemento a supportare la tesi di un uso strumentale dell’editoria meridionale per la mobilitazione delle coscienze collettive a favore della realizzazione di inutili e devastanti megainfrastrutture ad alta intensità di capitali pubblici. Il 18% circa del pacchetto azionario della società editrice della Gazzetta del Sud appartiene infatti al Gruppo industriale Pesenti, che oltre a dominare il mercato internazionale dei materiali di costruzione vanta enormi interessi nel settore immobiliare, dell’acciaio e dell’editoria. Oggi uno dei Pesenti, Carlo, siede in nome del gruppo industriale alla vicepresidenza della SES, mentre l’editore Mario Ciancio è membro del consiglio di amministrazione (109).
Per diretta ammissione di Umberto Bonino, l’ingresso nella seconda metà degli anni ‘70 della famiglia Pesenti nel quotidiano messinese è ascrivibile proprio all’interesse del gruppo di inserirsi direttamente nella progettazione e nella realizzazione del Ponte sullo Stretto. “Pesenti entrò nella SES, nel 1976, ed io gli ho dato una quota della Gazzetta, il 33%” ha raccontato il sen. Uberto Bonino in un’intervista ad un settimanale messinese. “Lui era un industriale dell’acciaio e del cemento e si era illuso che la questione del ponte sullo Stretto fosse una cosa seria. Quindi credeva di avere degli interessi in questa zona. Ma una cosa seria il ponte non lo è mai stata” (110).
Una conclusione amara, ma i tempi erano diversi, e oggi finalmente, potrebbe essere premiata la lungimiranza di uno dei più grandi signori del cemento.
In realtà gli interessi in Sicilia del gruppo Pesenti erano fortissimi da tempo, come lo erano i legami con i potentati economici e le classi politiche locali. Ventidue anni prima dell’ingresso nel quotidiano di Messina, Carlo Pesenti era riuscito a strappare dall’allora assessore regionale alle finanze Giuseppe La Loggia una nuova legge per l'industrializzazione della Sicilia che estendeva alle grandi imprese del Nord onerose agevolazioni e congrue esenzioni fiscali (111).
L’Italmobiliare della famiglia Pesenti, insieme ai giganti italiani della chimica Edison e Montecatini, ottenne dagli istituti regionali, finanziamenti per ventidue miliardi, la metà di quanto venne investito dai tre gruppi nell’isola (112).
In pochi anni l’Italmobiliare acquisì in Sicilia la titolarità delle Cementerie siciliane con i rispettivi impianti di Villafranca Tirrena (Me), Catania, Porto Empedocle (Ag) e Isola delle Femmine (Pa).
Con le scelte del Gruppo di trasferire nel Sud del mondo i propri maggiori complessi produttivi, il settore industriale cementizio è entrato fortemente in crisi in Sicilia e molti degli impianti sono stati chiusi e dismessi. L’ipotesi della realizzazione del Ponte e di altre Grandi Opere potrebbe vedere però il rilancio degli investimenti nell’isola.
Il dinamismo mostrato recentemente dal Gruppo nel mercato finanziario può essere interpretato come più di un segnale in questa direzione.
Dalle cave dell'isola al sacco di Palermo
Il gruppo Pesenti è alla guida dell’Italmobiliare S.p.a. di Milano, società leader nel settore della finanziazione immobiliare.
Presidente dell’Italmobiliare è Giampiero Pesenti, mentre sono membri del consiglio d’amministrazione il figlio Carlo, Livio Strazzera per la Serfis - società finanziaria e immobiliare proprietaria del 10,61% del pacchetto azionario dell’Italmobiliare - Giorgio Bonomi, Luca Minoli e Mario Bini. Dell’Italmobiliare sono soci di minoranza Mediobanca, la SAI, feudo del chiacchierato costruttore siciliano Salvatore Ligresti, e l’Alleanza Assicurazioni, società appena scalata dallo stesso Ligresti. (113).
La società di Milano controlla a sua volta il 56,6% delle azioni dell’Italcementi S.p.A., un fatturato di oltre 4.000 milioni di euro e una presenza in quindici paesi con oltre 19.000 dipendenti (114).
I Pesenti hanno deciso altresì di espandere le proprie attività sui mercati internazionali mantenendo concentrato l’interesse sul mercato delle costruzioni e “cercando una integrazione verticale dal cemento, al calcestruzzo preconfezionato, ai materiali da costruzione e ai componenti aggiuntivi”. Anche in questo settore, grazie alla controllata Italcalcestruzzi, i Pesenti hanno ottenuto la leadership per quota di mercato, fatturato e centri produttivi.
Nel 1997 l’Italcalcestruzzi ha interamente acquisito la Calcestruzzi S.p.A., società appartenuta al Gruppo Ferruzzi di Ravenna e di cui era stato manager, sino alla sua morte nel luglio 1993, Raul Gardini, uno dei principali protagonisti dell’inchiesta sulle tangenti Enimont, l’effimera joint venture creta da ENI, Montedison e Gruppo Ferruzzi (115).
Altro manager alla guida della Calcestruzzi, è stato Lorenzo Panzavolta, tra i maggiori protagonisti della prima Mani Pulite, arrestato nel 1992 per le tangenti versate dalla società dei Ferruzzi per assicurarsi una parte degli appalti per la desolforazione delle centrali ENEL.
Con la Calcestruzzi S.p.A., l’holding industriale-finanziaria lombarda rafforza la propria presenza in Sicilia, dove però dovrà confrontarsi con le distorsioni e le dinamiche sviluppate dalla società di materiali edili negli anni della gestione Ferruzzi-Gardini. Nell’isola, infatti, nei primi anni ’80, la Calcestruzzi S.p.A. ha firmato un patto scellerato con Cosa Nostra, acquisendo il controllo delle maggiori cave siciliane e scegliendo di operare congiuntamente con le società di produzione di materiale per l’edilizia in mano alla famiglia Buscemi dello storico mandamento di mafia di Brancaccio.
Più che una scesa a patti con i poteri criminali, l’interscambio tra la grande impresa del Nord e le piccole società in odor di mafia, ha risposto ad una precisa scelta di mercato del management per acquisire il pieno controllo del settore. Nessun assoggettamento pertanto, ma una consapevole strategia da cui ne è uscito rafforzato il blocco di potere imprenditoriale-politico-mafioso. Una mutazione dell’impresa, insomma, più rispondente alla globalizzazione dei mercati e dell’economia. Riferendosi ai rapporti tra il manager Raul Gardini e Cosa Nostra, Giovanni Brusca ha così dichiarato: “Una quota dei grandi appalti era previsto fosse affidata alle imprese direttamente riconducibili a Cosa Nostra, come il Gruppo Ferruzzi, facente capo ai Buscemi di Passo di Rigano. (...) I Buscemi si tenevano in mano questo gruppo imprenditoriale, in maniera molto forte”.
E il collaboratore Angello Siino ha aggiunto che “il Gruppo Ferruzzi, facente capo a Raul Gardini e, dopo la sua morte, all’ingegnere Giovanni Bini e Lorenzo Panzavolta, si era avvalso della protezione mafiosa dei Buscemi, i quali, a loro volta, in cambio della protezione offerta, potrevano avvalersi della copertura e del prestigio del potente gruppo finanziario ravennate che vantava anche importanti agganci politici” (116).
Come hanno provato le recenti indagini della Procura di Palermo, la società del Gruppo Ferruzzi-Gardini è giunta ad acquisire fittiziamente la Calcestruzzi Palermo S.p.A. del clan Buscemi, per fare da paravento ai mafiosi operanti per conto del boss Bernardo Provenzano ed impedire il possibile sequestro da parte dell’autorità giudiziaria (117).
Il padrino intervenne direttamente dalla latitanza sull’affiliato Luigi Ilardo per chiedere di fermare un tentativo d’estorsione ai danni dei gestori di una cava a Riesi, Caltanissetta, una “delle strutture di proprietà della Calcestruzzi S.p.A.” (118).
La società del Gruppo Ferruzzi ha potuto estendere altresì i propri interessi anche al settore edile-immobiliare, realizzando importanti operazioni finanziarie a Palermo, grazie alle mediazioni dell’imprenditore Vincenzo Piazza, personaggio legato ai boss Angelo La Barbera e Totò Riina, a cui è stato confiscato un patrimonio di oltre 2.000 miliardi di lire (119).
In particolare la società ravennate compare tra le imprese responsabili della lottizzazione e conseguente devastazione dell’area di Pizzo Sella, una collina sovrastante la splendida baia di Mondello.
Piazza Affari e il controllo dell’editoria
L’intervento di Italmobiliare non si ferma però ai settori immobiliari e delle grandi infrastrutture: la società dei Pesenti, infatti, possiede importanti partecipazioni nel settore finanziario - controlla il 12,91% della Mittel, società azionista della Fondiaria - e in quello industriale, dove controlla il Gruppo Falck e il Gruppo Franco Tosi.
Quest’ultimo, operava sino a qualche tempo fa solo nell’area elettromeccanica, ma a partire del 1990 ha reinvestito parte delle proprie risorse nel settore dell’imballaggio e dell’isolamento alimentare (Sirap Gema), del ciclo integrale dell’acqua (Sigesa) e della distribuzione del gas (Crea) (120).
Italcementi ha inoltre costituito Italgen S.p.A., società in cui si sono concentrate le attività di produzione e di distribuzione d’energia elettrica del Gruppo in Italia (121).
Il Gruppo Pesenti ha poi importanti partecipazioni azionarie nel settore del trasporto pubblico su gomma extra urbano (Gruppo SAB), ed ha fatto ingresso nella cosiddetta “new economy” e in particolare nel commercio via internet, finanziando la nascita di BravoSolution S.p.A., società che dalla metà del 2000 gestisce il portale BravoBuild.
Come ogni grande gruppo industrial-finanziario che si rispetti,
i Pesenti hanno costruito un vero e proprio impero editoriale.
Oltre alla quota della SES-Gazzetta del Sud, l’Italmobiliare di Milano è proprietaria di una serie di cartiere nazionali e a fine anni ’90, grazie ad un complesso accordo di cambio di pacchetti societari con il Gruppo Monti-Riffeser, ha acquisito una rilevante quota (il 4,77%) della Poligrafici Editoriale, l’holding proprietaria in Italia dei quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno, e in Francia delle società Presse Alliance-Regie Print, editrici del popolare quotidiano France Soir (122).
Facendo ingresso nella Poligrafici Editoriale, l’Italmobiliare-Pesenti è diventata socia-alleata di un’altra importante holding editoriale-finanziaria, quella legata alla Fiat e agli Agnelli, la Hdp guidata dal manager Maurizio Romiti, che controlla a sua volta la Rcs, il Corriere della Sera e la rete radio Sper (123).
Una quota dell’1% della Poligrafici Editoriale infine, è in mano alla SocPresse, maggiore gruppo editoriale francese di quotidiani, tra cui lo storico Le Figaro. A riprova della fitta rete di controllo della stampa esercitato dalla holding in mano al trio Monti-Pesenti-Agnelli, va aggiunto che lo scorso 2 maggio, la Poligrafici ha stilato un accordo con il gruppo editoriale Caltagirone – Il Messaggero, Il Mattino, Il Quotidiano di Brindisi, Lecce e Taranto - per la stampa nelle proprie tipografie del quotidiano Leggo, diffuso gratuitamente a Roma e Milano.
Banche, armi e mandanti coperti
Ci sono infine gli innumerevoli interessi del Gruppo Pesenti nel settore bancario. Attualmente esso controlla l’1,71% di Unicredito Italiano, una quota sufficiente ad imporre un proprio rappresentante, Carlo Pesenti, nel consiglio d’amministrazione nel gruppo bancario che ha espresso pubblicamente l’interesse a concorrere alla finanziazione del Ponte sullo Stretto. Come abbiamo già visto, Unicredito è socia in Consortium del Gruppo Franza di Messina, comproprietaria della Tourist-Caronte che ha il monopolio dei collegamenti marittimi privati dello Stretto.
Consortium ha scalato Mediobanca e Carlo Pesenti è divenuto consigliere dell’istituto di Via Filodrammatici; lo stesso vicepresidente della SES-Gazzetta del Sud siede nel C.d.A. della Banca Popolare ed è stato consigliere del Credito Romagnolo.
Giampiero Pesenti, già presidente del Gruppo Gemina e padre di Carlo, è stato sino al 1999, membro del consiglio d’amministrazione del Credito Italiano (124).
Carlo Pesenti senior, l’uomo che sbarcò a Messina per acquisire una quota della Gazzetta del Sud in vista della realizzazione del Ponte, ebbe sotto il suo controllo a metà degli anni ’70 il Credito Commerciale, per poi sbarazzarsene dopo un’indagine aperta dagli ispettori della Banca d’Italia. Subito dopo iniziò la scalata al Banco Ambrosiano, il prestigioso istituto cattolico di Milano presieduto da Roberto Calvi e in cui erano rilevanti gli interessi dello IOR (Istituto Opere Religiose) del cardinale Marcinkus e del gruppo di potere che ruotava attorno a Licio Gelli (125).
In realtà Carlo Pesenti aveva già tentato inutilmente, negli anni ’50, di entrare in possesso dell’Ambrosiano.
Successivamente l’industriale si era scontrato violentemente in Borsa contro l’istituto di Calvi, quando questi aveva sostenuto Michele Sindona nella scalata all’Italcementi. Il conflitto fu poi risolto grazie alla mediazione del Vaticano; Pesenti e Sindona divennero soci delle maggiori cementerie italiane e il Banco Ambrosiano e lo IOR intervennero a favore dell’imprenditore lombardo, al tempo in gravi difficoltà economiche.
“Carlo Pesenti, ormai anziano, ha dato in pegno proprio a Calvi le chiavi della cassaforte del suo impero” hanno scritto i giornalisti Leo Sisti e Gianfranco Modolo. “Presso l’Ambrosiano, infatti, è depositata ormai da tempo, a garanzia di prestiti, la maggior parte dei pacchi di controllo di Italmobiliare (il cuore del gruppo), Ras, Franco Tosi, Ibi, Banca Provinciale Lombarda, ecc.” (126).
Fu però Licio Gelli a mediare la pace definitiva tra Roberto Calvi e Carlo Pesenti e a sancire l’ingresso di Italcementi nel Banco Ambrosiano. Agli inizi del 1979 il Venerabile Maestro e i due finanzieri cattolici s’incontrano all’Hotel Dolder di Zurigo per firmare un vero e proprio ‘patto di non belligeranza’. Qualche mese più tardi Carlo Pesenti fu nominato membro del consiglio d’amministrazione della Centrale, la finanziaria controllata dal Banco Ambrosiano (127).
Negli stessi mesi Roberto Calvi intervenne a favore del nuovo alleato per sventare l’ingresso in Italmobiliare della finanziaria del Gruppo Agnelli, stimolando alcuni violenti attacchi stampa sulle pagine del controllato Corriere della Sera, che arrivò a definire gli Agnelli degli “scorridori di Borsa” (128).
Tre anni più tardi - marzo 1982 – venne infine autorizzata l’entrata dello stesso Carlo Pesenti nel consiglio d’amministrazione del Banco Ambrosiano. Contemporaneamente l’Italmobiliare acquistò il 3,62% dell’Ambrosiano, sborsando 100 miliardi (129).
In verità per questa acquisizione Pesenti non arrivò a sborsare neanche una lira, anche perché se avesse voluto non lo avrebbe potuto fare dato l’indebitamento per oltre mille miliardi del proprio gruppo.
Per acquisire i titoli dell’Ambrosiano, Pesenti utilizzò un prestito dall’Imi, con una fideiussione della stessa banca milanese.
L’ingresso dei Pesenti, tuttavia, non fu sufficiente a salvare il Banco Ambosiano dal maggiore crack finanziario che abbia mai colpito un istituto italiano (130).
Un crack precipitato dopo le voragini apertesi nei conti del controllato Banco Andino, utilizzato da Calvi e Gelli per finanziare l’esportazione di commesse d’armi ai regimi dittatoriali sudamericani.
Il Banco Andino garantì la vendita al Perù di fregate lanciamissili della classe 'Lupo' e di una decina d’elicotteri 'Agusta-Bell' cui si aggiunsero transazioni miliardarie a favore di Argentina, Bolivia, Cile, Ecuador e Venezuela (131).
Non sono mai state accertate responsabilità del Gruppo Pesenti nella cattiva gestione dei crediti delle controllate sudamericane dell’istituto milanese, tuttavia i giudici hanno potuto verificare che nel Banco Andino di Lima oltre al pacchetto di maggioranza del Banco Ambrosiano (pari al 10,4%), era stato depositato il 10% di quello dell’Italmobiliare (132).
Si sa inoltre che tra gli intermediari della transazione degli armamenti tra Roberto Calvi e i generali peruviani ci fu Alvaro Meneses, presidente del Banco de la Naciòn, tra gli azionisti di minoranza del Banco Andino. Nello stesso periodo operava sulla rotta Italia-Perù il faccendiere di origine messinese Filippo Battaglia, personaggio noto alla famiglia Pesenti al punto da non fargli mancare il proprio cordoglio in occasione di un lutto familiare che lo colpì nel 1991, prima dello scoppio di importanti inchieste sul traffico di armi che lo avrebbero coinvolto accanto a personaggi legati ai servizi segreti, alle famiglie mafiose di Catania e ad alcuni politici-imprenditori iscritti a Forza Italia.
Tra le maggiori banche 'prenditrici' del Banco Andino-Ambrosiano ci sarebbe stata poi la BCCI - Bank of Credit and Commerce International, più nota come 'Criminal Bank', il più importante centro di lavaggio del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata per la conduzione di operazioni finanziarie clandestine e il traffico internazionale d’armi. La BCCI era proprietà del miliardario pakistano Aga Hasan Abedi, uno dei più importanti soci del miliardario saudita Adnan Khashoggi, partner nelle transazioni d’armi di Filippo Battaglia.
La filiale della BCCI di Lima ha garantito il commercio illegale di armi verso stati sotto embargo ufficiale, fornendo false certificazioni sui paesi di destinazione; inoltre avrebbe dato la copertura bancaria, accanto al Banco Andino, ad acquisti di armi di produzione italiana (autoblindo Fiat ed Oto-Melara e caccia Aermacchi). "A un paese di merda come il Perù gli abbiamo portato via 270 milioni solo con gli elicotteri" ha esclamato in un’occasione Filippo Battaglia interloquendo telefonicamente con un suo socio mercante d’armi. Una conferma del ruolo interpretato in Perù dal faccendiere e della portata dei traffici che banche e imprese nazionali hanno realizzato nel Sud del mondo.
Filippo Battaglia, l’uomo che ha vantato ‘amicizie’ nei migliori salotti della finanza italiana (133), è stato indagato nell’ambito dell’inchiesta sui cosiddetti ‘Sistemi criminali’, i mandanti occulti tra mafia, politica e massoneria della stagione delle stragi 92-93. L’inchiesta si è conclusa con l’archiviazione della Procura di Palermo che si è però dichiarata “convinta della bontà della pista imboccata”, anche se il poco tempo a disposizione “non avrebbe consentito la raccolta di ‘prove certe’ nei confronti degli indagati”.
Oltre al faccendiere italo-peruviano, nell’inchiesta sui ‘Sistemi Criminali’ sono stati indagati Licio Gelli, il neofascista Stefano Delle Chiaie, l’avvocato-imprenditore di Barcellona Rosario Cattafi, il commercialista Giuseppe Mandalari e i boss mafiosi Totò Riina e Nitto Santapaola (134).
Cap. 4 - Tutti gli uomini del Presidente
Le consulenze per il capitalismo dal volto disumano
Il grave conflitto d’interessi del gruppo imprenditoriale-mediatico-politico del cavaliere Silvio Berlusconi al centro del dibattito-scontro politico, non è esente da esemplificazioni e personalizzazioni che non aiutano a comprendere la complessità della crisi democratica e istituzionale che sta attraversando il nostro paese. Con riferimento all’impero Mediaset si è troppo abusato dell’espressione “anomalia del caso italiano”.
In realtà, solo per restare nell’ambito degli interessi economici che ruotano attorno al Ponte dello Stretto, abbiamo già rilevato come siano differenti e variegate le incompatibilità e i conflitti che hanno caratterizzato la storia progettuale dell’opera (vedi casi Pesenti, Matacena, Franza, Gruppo Gazzetta del Sud-Fondazione Bonino Pulejo, ecc.).
Se è pur vero che in Italia oggi esiste un premier-capitano di una delle maggiori concentrazioni editoriali-televisive, per giunta “perseguitato” da un eccezionale numero di procedimenti penali, è altrettanto vero che nell’entourage di Berlusconi sono in tanti a condividere contestualmente ruoli di governo o di ‘vigilanza istituzionale’ e quelli di gestione di imprese per la progettazione e l’esecuzione di grandi opere.
Dovendo per forza di cose soffermarci sulla megaopera di collegamento tra Scilla e Cariddi, è utile considerare la figura dello stesso ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi, politico-imprenditore che sta giocando un ruolo decisivo per il rilancio dell’ipotesi-mito del Ponte.
Prima di assumere l’incarico che lo vuole a capo di un ministero che chiede di spendere centinaia di migliaia di miliardi sventrando alpi ed appennini e cementificando fiumi, coste e lagune, l’ingegnere Pietro Lunardi è stato consulente di alcune tra le più importanti imprese di costruzioni italiane: la Romagnoli, la Tettamanti, la Cogefar del gruppo Fiat (oggi inglobata nell’Impregilo), il Gruppo Ferruzzi, la Lodigiani di Roma, la Pizzarotti di Parma, la Grassetto di Salvatore Ligresti. Società che sono state indagate nei vari tronconi di Mani Pulite e, alcune, persino sospettate di essere entrate in affari con gruppi mafiosi-imprenditoriali.
Sono innumerevoli le storie di mazzette e appalti truccati delle società di cui il professore-ministro Pietro Lunardi si onora essere stato consulente-contrattista.
Romagnoli, Tettamanti, Lodigiani e Grassetto sono le imprese che in consorzio hanno realizzato parte della linea 3 della metropolitana di Milano e il passante ferroviario del capoluogo lombardo, ungendo di miliardi, oltre dodici, il gotha politico-istituzionale dell’Italia di fine prima repubblica. I Ferruzzi sono tra i protagonisti dello scandalo Enimont, la “madre di tutte le tangenti” e con la controllata Calcestruzzi (oggi passata alla famiglia Pesenti) sono finiti sotto inchiesta per gli appalti per la desolforazione delle centrali ENEL e come abbiamo visto, per la gestione delle cave in Sicilia nelle mani dei boss di Cosa Nostra.
Il costruttore Paolo Pizzarotti ha dovuto ammettere di aver versato a Severino Citaristi, il cassiere della DC, 500 milioni per potersi aggiudicare alcuni appalti per la realizzazione dell’aeroporto Malpensa di Milano, mentre sarebbe necessario un intero volume per raccontare le malefatte della ex Cogefar-Impresit oggi Impregilo, dalle tangenti per i lavori alla metropolitana e al passante di Milano, a quelle per la costruzione del policlinico di Pavia, dalla cogestione del sistema spartitorio per i grandi appalti dell’ANAS e della Società Autostrade ai tempi del ministro Gianni Prandini, all’immane scandalo dell’Alta Velocità e dei trafori ferroviari dell’appennino tosco-emiliano.
“La Cogefar Impresit, ereditando una procedura instaurata dalla precedente gestione della Cogefar, utilizzava disponibilità estere esistenti presso una società terza sita nelle isole del Canale e che si serviva a sua volta di una banca in Liechtenstein”, si legge nel memoriale consegnato ai magistrati di Mani Pulite dall’allora amministratore delegato del Gruppo Fiat, Cesare Romiti (135). Grazie ai fondi neri occultati sui conti esteri, miliardi su miliardi sono stati versati a politici, amministratori, dirigenti, militari della guardia di finanza; in pochi anni, grazie ad una strategia di mercato che l’ha vista impegnata nella fusione-assorbimento di altre importanti imprese del settore (la Girola e la stessa Lodigiani, ad esempio), l’Impregilo ha conseguito la leadership nel mercato italiano delle costruzioni delle grandi infrastrutture ed è penetrata con successo perfino nel delicato mondo delle commesse pubbliche della Sicilia, quello sovraordinato dai ‘tavolini’ a cui sedevano politici, imprenditori, mafiosi e massoni (136).
E non vanno infine dimenticati i crimini sociali ed ambientali e la lunga scia di violazioni dei diritti umani di cui la Cogefar-Impregilo è direttamente e indirettamente responsabile nel Sud del mondo, dalla Nigeria al Lesotho, dalla Colombia all’Argentina, dal Kurdistan al Nepal (137).
Il ministro-ingegnere dell’Alta Velocità
Oltre alle consulenze per i padroni delle megacostruzioni che concorrono a spartirsi i progetti finanziati o in via di finanziazione da parte del Ministero delle infrastrutture, l’ingegnere Pietro Lunardi sarebbe socio di un’impresa svizzera, la Marcionelli & Winkler, impegnata in Italia in alcune grandi commesse pubbliche (138); egli è poi il fondatore-titolare dell’impresa di progettazione e di consulenza idrogeologica Rocksoil, che dal 1979 ha contribuito alla realizzazione di alcune tra le più imponenti e costose opere infrastrutturali, in particolare quelle relative alle metropolitane di Roma, Milano e Napoli, alle tratte dell’Alta Velocità Bologna-Firenze e Roma-Napoli, alle Autostrade Livorno-Civitavecchia e Aosta-Monte Bianco (RAV) (139).
I lavori per le metropolitane di Milano e Roma e per l’Altà Velocità sono tra le opere a più alto impatto criminogeno e tangentizio della recente storia repubblicana. Già dicevamo dei dodici miliardi versati a politici e amministratori di Milano dal consorzio Romagnoli-Tettamanti-Lodigiani-Grassetto, per accaparrarsi i lavori per alcune tratte della metro lombarda. Ma i giudici hanno svelato un sistema corruttivo ancora più complesso ed articolato all’ombra della MM Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A., la società che ha gestito l’intera assegnazione degli appalti per la terza linea dell’infrastruttura e quelli per il passante ferroviario di Milano.
Per l’attribuzione dei lavori esisteva un tariffario determinato che alimentava un fondo per il finanziamento dei partiti politici: la regola prevedeva il 3-4% di tangenti sulle opere di costruzione fino ad un 13,5% sui contratti d’impiantistica. I due quinti delle tangenti finivano al PSI, un quinto al PCI, un altro quinto alla DC e il resto veniva suddiviso ai partiti minori (PSDI e PRI).
Le tangenti del ‘sistema MM’ sono state pagate per i vari lotti della linea della metropolitana, per il passante ferroviario, per tutte le forniture di materiale rotabile, per l’impiantistica, per la costruzione dei parcheggi adiacenti alle stazioni.
“Le imprese, come d’abitudine, si accordavano per predeterminare gli esiti delle gare evitando i noiosi impicci del libero mercato.
Un rappresentante dell’azienda capofila per ogni appalto si premurava di raccogliere le somme “dovute” da ciascuna società della cordata vincitrice. Poi regolava le pendenze con i diversi partiti, oppure consegnava la tangente al ‘cassiere unico’ delle forze politiche, il quale poi divideva il bottino con i ‘colleghi’” (140).
Non c’è stata impresa di costruzioni che non si sia sottoposta al sistema di tassazione illegale pur di ottenere la sua fetta d’appalti a Milano.
Oltre alle società che affidarono direttamente lavori di progettazione alla Rocksoil di Lunardi, ci furono i più noti gruppi industriali internazionali, l’Ansaldo, la Siemens, la Abb, la Fatme, la Sasib, la Siette, la Wabco Westinghouse, le imprese di costruzioni Torno, Collini, Progetti&Costruzioni e Guffanti, e finanche una lunga serie di cooperative ‘rosse’, la CMC-Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna, la Unieco, la Coopsette, la Cmb di Carpi. Una fitta trama imprenditorial-politica che ha dilapidato immense risorse finanziarie e che ha avuto come prima ricaduta la crescita vertiginosa dei costi di realizzazione delle infrastrutture per il trasporto urbano di Milano.
E’ stato calcolato che la nuova linea è costata all’erario, 192 miliardi di lire a chilometro, contro i 45 della metropolitana di Amburgo; il passante ferroviario, a sua volta, ha raggiunto i 100 miliardi a chilometro mentre quello similare di Zurigo è costato poco meno della metà.
Ancora più scandaloso è stato l’incremento dei costi per la realizzazione della metropolitana di Napoli - committente ancora una volta la MM Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A. - un’opera che doveva costare 50 miliardi e che al completamento superò i 1300 miliardi. Anche per questi lavori il giro di mazzette fu ampio ed articolato. Solo al processo d’appello, l’ex ministro per il bilancio del governo Andreotti, l’on. Cirino Pomicino, è uscito assolto per intervenuta prescrizione del reato, dopo una condanna a due anni per essere stato il recettore di una tangente di quattro miliardi.
Meglio era invece andata all’ex ministro delle partecipazioni statali on. Clelio Darida e agli altri imputati del processo sulle tangenti versate dal consorzio Intermetro a guida Cogefar-Impresit e Iri-Italstat per l’aggiudicazione dei lavori per la nuova metropolitana di Roma, l’altra megaopera a cui la Rocksoil di Lunardi ha venduto le proprie competenze progettuali (141).
Eccetto l’allora presidente del consorzio Luciano Scipione, sono usciti tutti assolti in primo grado dopo che il fascicolo d’indagine era approdato nel porto delle nebbie del tribunale capitolino.
C’è poi il capitolo non ancora conclusosi del business dell’Alta Velocità, i cui lavori nelle tratte Bologna-Firenze e Roma-Napoli, hanno comportato una spesa superiore ai 50 mila miliardi di lire e l’affermazione di un vero e proprio blocco di potere che ha visto tra i maggiori protagonisti l’ex amministratore delle Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci, il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, alcuni magistrati romani e noti faccendieri legati alla P2 e ad alcuni trafficanti d’armi. “L’Alta Velocità coinvolge tutti i centri di potere che contano in Italia, così da non scontentare nessuno e stroncare sul nascere qualunque opposizione” scrive l’economista Ivan Cicconi, estensore di una ricerca sul sistema delle tangenti nell’affare ferrovie. In effetti, il congegno spartitorio è stato disegnato con scientificità e saggio equilibrismo.
Al tavolo degli appalti si sono sedute le maggiori imprese di costruzioni nazionali, accorpatesi in sette consorzi, guidati due dall’IRI, due dalla Fiat, due dall’ENI e uno rispettivamente dalla Grassetto di Ligresti e dal Gruppo Ferruzzi. Apparentemente nulla di nuovo sotto il sole: le società sono sempre le stesse, ma c’è una novità nel modello di finanziazione e realizzazione delle opere, attività affidate ad una società creata ad hoc in seno alle Ferrovie dello Stato, la Tav S.p.A., spacciata mediaticamente per ‘società privata’, nonostante l’azienda statale ne detenga direttamente il 45.1% del pacchetto azionario, più un altro 5% attraverso la controllata Banca nazionale delle comunicazioni. Un vero e proprio falso ideologico “anche perché il restante 49,5% è distribuito fra 23 istituti bancari, in maggioranza di diritto pubblico ed è inoltre stato accertato che tutti i prestiti bancari per l’alta velocità sono stati attivati solo grazie alle garanzie prestate presso gli istituti di credito da FS e dal suo socio di riferimento, il ministero del Tesoro” (142).
Grazie all’escamotage della Tav “società privata”, i lavori per l’Alta Velocità sono stati affidati a trattativa privata e non per appalto pubblico, come previsto dalle direttive europee. Inoltre ciò ha permesso che gli eventuali responsabili d’illeciti restino al riparo dal codice penale, perché a loro non è possibile contestare il ruolo di pubblici ufficiali. Attraverso il sistema del general contractor – l’affidamento ai privati di un’infrastruttura dalla fase di progettazione, alla cofinanziazione, all’esecuzione e gestione - lo stesso che viene proposto per la realizzazione del Ponte sullo Stretto e per le grandi opere dell’era Lunardi, i tre maggiori colossi economici italiani (IRI, ENI e Fiat) hanno potuto scegliere in piena autonomia le imprese per i lavori “ventitre in tutto, coordinate dal quintetto Astaldi-Lodigiani-Caltagirone-Di Falco-Salini” (143).
Anche in questo caso la ‘privatizzazione’ delle grandi opere pubbliche si è rilevata tutt’altro che un affare. Mentre in Spagna la linea ad alta velocità Madrid-Siviglia è costata nove miliardi e mezzo di lire a chilometro, in Italia, nel 1998 la previsione di spesa era di ventisei miliardi, linee elettriche e treni esclusi (144).
Solo per gli appalti della Bologna-Firenze sarebbero state versate tangenti multimiliardarie a DC, PSI, PDS, MSI e partiti minori dell’ex centrosinistra. Un primo grande troncone d’indagine sull’affare dell’Alta Velocità è approdato in un tribunale, quello di Perugia, dopo l’apertura dell’inchiesta sulle trame del banchiere Pacini Battaglia (145).
Sono 74 le persone di cui è stato chiesto il rinvio a giudizio, in buona parte imprenditori, dirigenti delle ferrovie ed ufficiali della guardia di finanza. Gli indagati farebbero tutti parte “di una struttura bene organizzata composta da manager pubblici e privati” che gestiva gli appalti e la “successiva distribuzione di lavori per le grandi opere”, con l’obiettivo di “creare fondi extracontabili per erogare tangenti verso il potere politico che quei vertici avevano sponsorizzato, e verso gli stessi amministratori pubblici per garantire il loro illecito arricchimento” (146).
Tra i nomi più noti, il presidente della squadra calcistica della Lazio Sergio Cragnotti e l’ex amministratore della Tav S.p.A. Ettore Incalza. Secondo la Procura di Perugia sarebbe proprio quest’ultimo uno dei maggiori protagonisti della vicenda. “Pupillo e vero amico di Pacini, Incalza era destinato a succedere a Necci alla guida delle Ferrovie dello Stato”, scrivono di lui i magistrati umbri. Appena nominato ministro delle infrastrutture, Pietro Lunardi lo ha però chiamato tra i suoi più stretti collaboratori.
Lavori relativi a progettazioni di Gallerie e di Consolidamenti e Fondazioni realizzati dalla Rocksoil S.p.A. per conto di grandi società e consorzi privati
Cogefar-Impresit (oggi Impregilo)
1979 – Strada di collegamento Frejus, tratto Bardonecchia-Savolux
1979 – Ferrovie El Gourzi-El Khoub-Costantine (Algeria) – In consorzio con Italstrade
1986 - Consolidamento Frana di Spriana (Valtellina)
1988 – Autostrada Vittorio Veneto-Pian di Vedoia (lotti 2 e 6) – In consorzio con Italstrade
Di Penta
1997 – Galleria Principe Amedeo, viabilità Roma
Gambogi S.p.A.
1987 – Autostrada Fiano – S. Cesareo
Grassetto
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Lodigiani, Romagnoli, Tettamanti
1990 – Diga cantoniera sul fiume Tirso
1990 – Viadotto Santa Chiara sul fiume Tirso
Incisa
1991 – Strada Statale n. 248 Montebelluna
Intermetro S.p.A.
1988 - Metropolitana di Roma, linea A, tratto da Ottaviano a Battistini
1988 - Stazione Aurelia Cornelia
1988 – Stazione Ubaldo degli Ubaldi
Italstrade S.p.A.
1979 – Ferrovie El Gourzi-El Khoub-Costantine (Algeria) – In consorzio con Cogefar
1981 – Autostrada Udine-Cervia-Tarvisio
1988 – Autostrada Vittorio Veneto-Pian di Vedoia (lotti 2 e 6) – In consorzio con Grassetto
1990 – Depuratore di Temuno
Lodigiani S.p.A.
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Romagnoli, Tettamanti
M.M. Strutture ed Infrastrutture del Territorio S.p.A.
1985 – Metropolitana di Milano, linea 3, lotto 7
1985 - Passante ferroviario Milano-Porta Venezia
1986 - Metropolitana di Napoli, linea tranviaria rapida.
1990 – Differenti lotti Metropolitana di Milano, linea 3
1990 – Collegamento ferroviario Passante di Milano
1991 - Differenti lotti Metropolitana di Milano, linea 3
1991 – Collegamento ferroviario Passante di Milano
Pizzarotti S.p.A.
1984 – Scalo F.S. Crevignano del Fiuli
1984 – Officina F.S. Nola
1987 – Strada Statale Merano-Bolzano
1989 – Parcheggi sotterranei in località Revis – Cortina d’Ampezzo
Romagnoli S.p.A.
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Lodigiani, Tettamanti
1991 – Strada Statale n. 415 Paullen
Sicalf S.p.A.
1983 – Strada Statale n. 3 Flaminia (lotti I e II)
1987 – Autostrada Fiano – S. Cesareo
Tettamanti
1985 – Metropolitana Milano linea 3 (lotto 2B) – In consorzio con Grassetto, Lodigiani, Romagnoli
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Al club degli impresentabili-incompatibili
La Rocksoil vanta nel suo curriculum importanti commesse da parte delle maggiori imprese del settore trasporti, su cui nonostante la privatizzazione in atto, il ministero delle infrastrutture esercita ancora ampi poteri decisionali e di gestione (la Società Autostrade, l’ANAS, le Ferrovie dello Stato, società le ultime due azioniste della Stretto di Messina). Importanti attività progettuali sono state commissionate alla società di Lunardi dai giganti dell’industria chimica e petrolifera italiana, come la Selm-Montedison (una galleria idraulica in Val Camonica nel 1986) e la SNAM Progetti del Gruppo ENI (5 gallerie di un metanodotto nell’ex Unione Sovietica). La SNAM Progetti, come abbiamo visto, è una delle società che concorrono alla realizzazione del cosiddetto Ponte d’Archimede, il tunnel sommerso proposto in alternativa al Ponte sullo Stretto dagli armatori Matacena.
In realtà, la Rocksoil è più vicina di quanto pare all’ipotesi progettuale per un collegamento stabile del corridoio marino tra Scilla e Cariddi. Nel 1987, per conto dell’ANAS, la società ha eseguito lavori di progettazione relativi “all’attraversamento dello Stretto”. A differenza di tutte le altre opere progettate e di cui la Rocksoil fornisce una lunga serie di dati tecnici, le informazioni della società Lunardi sulle attività svolte a Messina sono proprio ridotte al minimo. Titolo e anno lasciano però presupporre un intervento diretto nell’iter progettuale del Ponte: due anni prima, la Società Stretto di Messina aveva stipulato proprio con l’ANAS e le Ferrovie dello Stato, una convenzione per lo “studio, la predisposizione del progetto di massima del ponte, la costruzione e l'esercizio del collegamento stradale”. Il periodo, tra l’altro, coincide con un certo attivismo della società nell’area compresa tra le province di Messina e di Reggio Calabria: nel 1980 il Genio Civile di Reggio aveva assegnato alla Rocksoil i lavori di consolidamento del promontorio di Scilla; nel 1984 Lunardi si era aggiudicato dalla Società Autostrada Messina-Palermo la progettazione di alcuni tunnel dell’arteria mai completata (gallerie S. Elia, Carbonara e Laugenia); tre anni più tardi aveva ottenuto dalle Ferrovie dello Stato la progettazione della galleria di Capo d’Armi sulla tratta ionica Reggio-Metaponto (147).
Se il ministro non trova incompatibile il decidere sulla fattibilità e sulla messa in opera di infrastrutture proposte o appaltate a imprese di cui è stato consulente e contrattista, ancor meno ritiene possibile un qualsiasi conflitto d’interessi lo scegliere collaboratori e commissari che sono stati suoi committenti o datori di lavoro. Lunardi, ad esempio, ha nominato commissario dell’ANAS, Vincenzo Pozzi, già amministratore delegato della RAV, la società del Raccordo Autostradale Valdostano che ha affidato alla Rocksoil la progettazione del raccordo autostradale e di quattro gallerie in Val d’Aosta (148).
“Pozzi dà incarichi professionali miliardari al Lunardi-progettista, Lunardi-progettista diventa ministro, il Lunardi-ministro nomina Pozzi presidente dell’ANAS” ha commentato il giornalista Gianni Barbacetto il circolo vizioso che ha posto l’ex manager Rav a capo della società titolare del 12,25% delle azioni della Società Stretto di Messina (149).
E’ proprio in tema di Ponte che appaiono più evidenti i conflitti d’interessi dei nuovi incaricati dal governo alla gestione delle Grandi Opere. Da qualche mese sono stati nominati i nuovi membri del consiglio d’amministrazione della Stretto di Messina, più alcuni ‘consulenti’ da affiancare per la riprogettazione dell’infrastruttura. Le sorprese sono tante. Il neo amministratore delegato della società ad esempio, è il dottor Pietro Ciucci, attuale consigliere di Alitalia e di Rai Holding, direttore generale dell’IRI e componente del Collegio dei liquidatori dell’istituto di Via Veneto. Trasporti, emittenza televisiva e settore industriale, quasi a volere enfatizzare i pilastri su cui poggia il ‘modello di sviluppo’ dell’era Berlusconi. Ciucci, però, ha un curriculum vitae ancora più ampio e ramificato: dal 1969 al 1987 ha lavorato come direttore amministrativo nella Società Autostrade; poi è passato alla presidenza della finanziaria Cofiri e alla vicepresidenza della Banca di Roma e, infine, è stato nominato membro dei consigli d’amministrazione di colossi del settore creditizio ed industriale come l’ABI, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, la Stet, Finmeccanica, Aeroporti di Roma, e della stessa società Autostrade. Come è possibile notare molte di queste società o dei gruppi che ne detengono i pacchetti azionari sono tra i maggiori concorrenti alla cofinanziazione-realizzazione-gestione del Ponte di Messina.
A dar soluzione agli enormi problemi di tipo tecnico-strutturale della infrastruttura che si vorrebbe realizzare nello Stretto, Pietro Lunardi ha chiamato il professore di tecnica delle costruzioni Remo Calzona, anchegli impegnato in prima persona, insieme allo stesso ministro delle infrastrutture, nella progettazione dellAlta Velocit e dei tunnel autostradali del Raccordo Valdostano. Remo Calzona è stato nominato presidente del comitato tecnico che dovrà sovrintendere all'adeguamento del progetto del Ponte di Messina, mentre già circola il suo nome tra i candidati che potrebbero assumere la carica di commissario straordinario per la realizzazione dell'opera.
Nella classifica degli impresentabili spicca poi il nome di Lino Cardarelli, fresco di nomina nel consiglio d’amministrazione della Stretto di Messina, a cui è transitato dopo aver fatto parte per circa un anno della segreteria particolare del ministro Pietro Lunardi. Cardarelli è uno dei tanti miracolati dalla rapida fine del ciclone Mani Pulite e dall’altrettanto repentino passaggio alla seconda repubblica: arrestato per finanziamento illecito ai partiti quando era dirigente della Montedison di Schimberni, ne è poi uscito ‘assolto’ per intervenuta prescrizione del reato (150).
Nelle file degli impresentabili c’è poi l’ex amministratore delegato della Stretto di Messina, il dottor Carlo Bucci, riconfermato tra i membri del nuovo consiglio d’amministrazione della società. In questo caso non si tratta di qualche errore di gioventù ma di una riprovata ignoranza in tema storico-ambientale. E’ sufficiente riportare una sua dichiarazione ad un convegno sui trasporti, a cui la Gazzetta del Sud non poteva non dare grande rilevanza. “Di tutte le possibilità di collegamento – ha sottolineato Bucci – il Ponte è la più ecologicamente compatibile: non ha fondamenta in acqua ma poggia sulla terraferma, dunque non altera l’equilibrio marino, né scarica nulla a mare”. Bucci ha poi aggiunto che nell’arco di otto anni, i lavori per il Ponte impegneranno un indotto “di 75 mila persone: gli abitanti virtuali di una città invisibile che prospererà sulla costruzione di un’opera di rilievo planetario, la prima che sarà realizzata in Italia dopo il Duomo di Milano, sorto 700 anni fa” (151).
Forse Bucci non conosce Piazza San Pietro, il Duomo di Firenze e la Torre di Pisa, ma la cosciente menzogna sull’indotto, moltiplicato per dieci volte il suo valore reale, è proprio imperdonabile.
Un Presidente da Sogno
Il 12 maggio 2001, alla vigilia delle elezioni politiche che avrebbero riportato al governo Berlusconi, Bossi e Fini, il candidato Pietro Lunardi, indicato dal leader di Forza Italia come possibile futuro ministro per le infrastrutture, si reca a Luino (Varese) per incontrare amministratori ed esponenti di Forza Italia e un nutrito gruppo di imprenditori lombardi. Lo accompagna l’on. Giuseppe Zamberletti, DC doc, già sottosegretario all’interno e ministro per la protezione civile e dei lavori pubblici (152).
Zamberletti apre la convention elettorale presentando il futuro ministro come l’uomo giusto per rendere cantierabili le Grandi Opere bloccate da anni. Interviene Lunardi: “La Casa delle Libertà prevede per l’intero Paese, investimenti che si aggireranno in tutto attorno ai 260 mila miliardi”. Quindici giorni più tardi l’ingegnere-consulente delle maggiori società di costruzioni d’Italia assumerà l’incarico di ministro. Un anno più tardi avrà modo di sdebitarsi con l’amico-collega Zamberletti, nominandolo alla presidenza della Società Stretto di Messina dopo dodici anni di incontrastata presenza del direttore della Gazzetta del Sud Nino Calarco.
C’è un filo impercettibile che lega tutti i presidenti della storia della società del Ponte, dall’on. Oscar Andò, a Calarco, per finire con Zamberletti: l’essere stati parlamentari eletti come espressione dell’area ultramoderata della Democrazia Cristiana. E l’ex ministro, come il direttore della Gazzetta del Sud, vanta un’antica amicizia con l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, di cui tra l’altro ne è stato sottosegretario negli anni di piombo della cosiddetta lotta al terrorismo. Con Cossiga, Zamberletti condivide passioni e vicinanze con certi settori delle forze armate e dei servizi segreti. Poco prima di essere chiamato alla Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti è stato tra i parlamentari particolarmente distintisi nella campagna orchestrata dalle grandi imprese militar-industriali per la modifica della legge 185 del 1990 che regola l’export di armi italiane, a favore della piena ‘liberalizzazione’ in materia. “Siamo contro le norme, introdotte dall’area parlamentare più utopistica e massimalista, realmente assurde, come quelle relative ai paesi in via di sviluppo”, ha dichiarato lo stesso Zamberletti, in occasione di un seminario organizzato dall’Istrid, l’Istituto ricerche e informazioni difesa insieme alle maggiori aziende belliche nazionali.
L’azione a favore della lobby dei mercanti di morte si è sviluppata parallelamente alla ricerca della “verità” su due delle peggiori stragi della recente storia d’Italia, l’esplosione in volo del Dc-9 di Ustica e l’attentato alla stazione di Bologna nel 1980. In un volume Zamberletti ha rilanciato la cosiddetta “pista libica”, sempre più improbabile e depistante dopo le conclusioni a cui sono giunte procure e commissioni parlamentari d’inchiesta. “Se pure i servizi segreti italiani hanno bene interpretato sia la minaccia di Ustica sia la vendetta di Bologna – ha dichiarato Giuseppe Zamberletti – essi non avevano alcun interesse ad indagare in quella direzione e provocare un grosso incidente internazionale. C'era dunque una ragione di Stato. Fuggire dalla pista libica significava mantenere intatte le condizioni per la ripresa dei buoni rapporti con la Libia” (153).
Non è noto perché mai il neopresidente della Stretto di Messina si ostini a difendere una tesi che fu sposata ed amplificata da agenti deviati e centrali massoniche. Di certo non è mai stato chiarito a che titolo e per conto di chi il nome di Giuseppe Zamberletti fosse stato inserito nella lista del governo ultramoderato che doveva essere insediato dopo il cosiddetto ‘golpe bianco’ dell’ex partigiano Edgardo Sogno, previsto per l’agosto 1974, al culmine di una lunga stagione di sangue e di bombe neofasciste. Il ‘governissimo’ per la restaurazione dell’ordine sociale, il cui programma presentava sorprendenti analogie con il Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli, prevedeva la presidenza di Randolfo Pacciardi, con ministro della difesa Edgardo Sogno e dell’industria, appunto, Giuseppe Zamberletti (154).
Il ‘sogno’ di una svolta conservatrice e antioperaia fu alimentato dai fondi neri della Fiat e dei servizi segreti italiani e USA. Vide altresì l’attivazione dei Comitati di Resistenza democratica, dei maggiori industriali di destra, di uomini di vertice delle forze armate e perfino di alcuni banchieri stranieri, come ad esempio i due John McCaffery senior e junior. Il primo aveva guidato dal 1943 al 1945 i servizi segreti inglesi in Italia; successivamente era divenuto socio del finanziere Michele Sindona nella Banca Privata Italiana e nella Banca Wolf di Amburgo. John Mc Caffery junior invece, negli anni della strategia della tensione, sedeva come membro del consiglio d’amministrazione della Banca di Messina di cui era proprietario Sindona e di cui l’industriale editore Uberto Bonino aveva detenuto un pacchetto di minoranza sino all’avvento del banchiere in odor di mafia (155).
Le ombre del passato si sono rincrociate tra i venti e le correnti dello Stretto.
Il business dell’eccezionalità
La scelta di attribuire la presidenza della Società Stretto di Messina all’anziano parlamentare democristiano risponde ad un criterio oggettivo: accelerare la trasformazione della società del Ponte, favorirne la privatizzazione e assicurarle pieni poteri in tema di appalti e cantierizzazione dell’opera. Per un’infrastruttura di tale ‘straordinarietà’ sono indispensabili strumenti e mezzi ‘straordinari’, come quelli che furono affidati a Giuseppe Zamberletti in occasione di eventi ‘straordinari’, come accadde nel 1976 con il terremoto del Friuli e quattro anni più tardi con il sisma che distrusse l’Irpinia. E non è un caso che queste siano anche le intenzioni del ministro Pietro Lunardi, sponsor di Zamberletti, che vanta esperienze dirette proprio in tema di post-emergenza ed ‘eccezionalità’ degli interventi.
Nel 1985 alla Rocksoil di proprietà Lunardi, furono affidati i lavori di consolidamento delle fondazioni degli edifici predisposti per i terremotati dei comuni di Melito e Pozzuoli (Napoli), per conto del Consorzio Co.Ri.. Forse risale ad allora la conoscenza tra l’ingegnere e il parlamentare a cui il governo aveva affidato la delega per la ricostruzione di Campania e Basilicata.
Esperienza estremamente negativa quella della ricostruzione dell’Irpinia specie per gli effetti che ha avuto nella società e nel costume politico di un’area strategica del Mezzogiorno d’Italia.
“Nel nostro paese il verificarsi di calamità naturali ha finora costituito un’ottima occasione per la lievitazione degli interessi di gruppi mafiosi o ad essi assimilabili – ha commentato lo studioso Umberto Santino del Centro studi antimafia ‘Giuseppe Impastato’.
“Si è creata una vera e propria ‘economia delle catastrofi’ di cui hanno beneficiato in tanti, comprese associazioni e imprese criminali. (...) La mole degli interessi e le modalità di gestione delle attività di ricostruzione in Irpinia, all’insegna dell’eccezionalità, hanno stimolato lo sviluppo e l’incrocio di più sistemi illegali”.
I risultati di questo intreccio sono stati l’enorme spreco di risorse e il trasferimento del denaro pubblico a favore di imprenditori, camorristi, amministratori e politici, “con la lievitazione del ruolo della criminalità e la comparsa di criminali organizzati anche in Lucania, regione fino ad allora indenne” (156).
Fu grazie alla straordinarietà delle misure adottate per il post-terremoto e all’ingente quantità delle risorse finanziarie catapultate sulle regioni colpite che si potè sviluppare in Campania un sistema di potere e di scambio tra le imprese di costruzione del Nord “con molte aderenze ministeriali”, le organizzazioni camorrisitico-imprenditoriali, i gruppi politico-affaristici locali.
“Ed è ancora tutto da valutare il ruolo dei grandi procacciatori d’affari (Pazienza e compagni) legati ai servizi segreti e all’affare Cirillo” (157).
Secondo la magistratura, per la ricostruzione post-terremoto furono versate al gotha della politica campana, mazzette per trentadue miliardi di lire, al valore dei primi anni ‘80.
Il procedimento giudiziario si è però concluso con un generale colpo di spugna: dei 137 imputati (tra cui gli ex ministri Gava, Pomicino, De Lorenzo, Di Donato, Scotti) nessuno è stato condannato, vuoi perché assolti, vuoi perché ‘prescritti’.
L’Istituto delle Grandi Opere
Sarebbe sufficiente la discutibile gestione dell’emergenza post-terremoto per porre al centro del dibattito politico l’inopportunità della presenza di Giuseppe Zamberletti alla presidenza della società che chiede massimi poteri e un assegno in bianco per realizzare il Ponte sullo Stretto. Eppure c’è dell’altro.
L’anziano parlamentare ricopre infatti, contestualmente, un incarico che per la sua vicinanza alle maggiori imprese di costruzioni e al sistema bancario che assicura loro i necessari flussi finanziari, apparirebbe ostativo in un paese retto da regole democratiche certe e non manipolabili attraverso il monopolio esercitato dai mezzi di comunicazione che le stesse banche e gli stessi costruttori detengono.
Giuseppe Zamberletti, l’Uomo nuovo del Ponte, presiede dalla sua fondazione nel 1986, l’IGI - Istituto Grandi Infrastrutture, centro di studi e ricerche in campo ingegneristico, infrastrutturale, finanziario e legislativo, che raccoglie tutte le più grandi imprese di costruzioni italiane ed anche determinati istituti bancari.
Scopo statutario dell’IGI è di “approfondire i temi degli appalti pubblici”. In vista del rilancio delle Grandi Opere, l’istituto ha ampliato la propria base associativa, con l’ingresso dei grandi concessionari autostradali, degli enti aeroportuali, delle compagnie di assicurazione e di settori imprenditoriali complementari ai tradizionali costruttori. “Accanto all’Osservatorio sui grandi lavori pubblici, che consente all’Istituto di monitorare, unico in Europa, tutto l’iter dei grandi appalti, dalla gara al collaudo, sono stati effettuati approfondimenti sui sistemi normativi degli altri Partner europei, mentre un altro Osservatorio, di recente avvio, mira a mettere sotto controllo tutte le iniziative in materia di finanza di progetto”. Insomma un istituto-lobby, capace di intervenire in tutte le sedi istituzionali, nazionali ed europee, per sponsorizzare e proporre la realizzazione di megainfrastrutture o per richiedere la modifica delle norme in materia di appalti e concessioni in modo da favorire gli investimenti e il ritorno finanziario ai privati, che sono poi gli stessi soci-dirigenti dell’istituto presieduto dall’on. Zamberletti (158).
L’IGI può essere definito come un vero e proprio centro di confronto-scambio tra le società e i manager che hanno fatto la storia economica d’Italia, una storia troppo spesso caratterizzata da macroscandali, corruzioni dell’amministrazione pubblica, tangenti a partiti e parlamentari, interventi del pubblico a favore degli interessi e dei profitti dei privati. Una cassa di compensazione su cosa, dove come e con chi progettare e realizzare, magari definendo prioritariamente regole e metodologie di spartizione.
Oggi che i confini tra Stato e aziende sono stati cancellati, associazioni simili possono anche decidere di sostituirsi ai poteri pubblici per regolare l’economia e gestire il territorio.
Riciclati e riciclabili
Scorrere i nomi dei massimi dirigenti dell’Istituto Grandi Infrastrutture può essere utile per rimettere in discussione l’assunto che ci sia stata una prima repubblica e che dopo Mani Pulite ne sia iniziata una seconda. Vice presidente vicario dell’IGI è il cavaliere del lavoro Franco Nobili, presidente della FIEC – Fédération de l’Industrie Européenne de la Construction (la federazione delle grandi società europee di costruzione), con un invidiabile curriculum professionale nelle maggiori aziende pubbliche e private d’Italia: amministratore delegato nell’impresa di costruzioni Angelo Farsura S.p.A. di Milano, dal 1959 al 1989 amministratore e poi presidente della Costruzioni Generali Cogefar S.p.A. del Gruppo Fiat, consigliere della Pizzarotti S.p.A. di Parma, vicepresidente e amministratore della Bastogi-IRBS e infine, dal novembre del 1989 al maggio 1993, presidente dell’IRI, l’impero dell’industria statale nazionale (159).
La stagione di Franco Nobili all’IRI coincide con il piano di rilancio della controllata Società Stretto di Messina e del progetto del Ponte, con la nomina di Nino Calarco alla presidenza, e con l’inserimento nella finanziaria, di un pinguo stanziamento annuale a favore della stessa società.
Nobili dovette abbandonare l’incarico all’IRI in seguito all’arresto per una storia di tangenti. Ad accusarlo l’allora vicedirettore d’Italstat Alberto Mario Zamorani: secondo il manager, Franco Nobili, insieme al ministro dei trasporti Giorgio Santuz e a quello dei lavori pubblici Gianni Prandini, avrebbe fatto parte del cosiddetto “sistemone”, il tavolo di suddivisione di appalti e subappalti per i lavori all’ANAS e alla Società Autostrade a cui sedevano grandi costruttori privati, manager delle imprese pubbliche e politici. I giudici di Milano hanno altresì rilevato nei bilanci della Cogefar - al tempo della presidenza di Franco Nobili e quando era di proprietà di Acqua Marcia (Gruppo Romagnoli) - movimentazioni che hanno lasciato intravedere un giro di tangenti e di fondi neri. Nobili trascorse settantasette giorni in prigione; rinviato a giudizio fu assolto otto anni dopo. Successivamente è finito sotto inchiesta a Milano, Salerno e Roma per vicende relative agli appalti dell’ENEL. I processi, tuttavia, hanno dato ragione al vice di Zamberletti: a Milano, dopo la condanna in primo grado assoluzione in appello; assoluzione a Salerno e infine prescrizione nel procedimento aperto dai giudici della capitale (160).
Tra i vicepresidenti dell’IGI, compare anche Giancarlo Elia Valori, neopresidente dell’Unione Industriali di Roma e presidente dell’A.S.E.C.A.P. – Association Européenne des Concessionnaires d’Autorouts et d’Ouvrages à Péage (l’associazione europea dei concessionari delle autostrade a pagamento). Sino allo scorso mese di maggio, Giancarlo Elia Valori ha ricoperto l’incarico di presidente della Autostrade S.p.A. la società a capo della più grande rete autostradale del mondo, con i suoi 3.000 chilometri d’asfalto, 3.200 miliardi di fatturato, 426 di utili. Al suo posto è stato nominato, su designazione dell’Edizione Holding del gruppo Benetton, maggiore azionista di Autostrade, il manager Gian Maria Gros-Pietro, presidente uscente dell’ENI, il quale dovrebbe subentrare a Valori anche alla vicepresidenza dell’Istituto Grandi Infrastrutture (161).
Gli anni trascorsi da Valori alla guida di Autostrade sono stati decisivi per l’espansione nel mercato della concessionaria; in particolare il manager è stato tra gli ideatori del consorzio telefonico Blu, di cui è stato nominato presidente, per la creazione del quarto gestore Gsm, e che ha visto scendere in campo oltre ad Autostrade, Benetton, il costruttore-editore Caltagirone, Mediaset e la British Telecom. Originario della Calabria, Giancarlo Elia Valori non poteva non restare insensibile al mito del Ponte sullo Stretto, e sin dalla sua nomina a presidente di Autostrade è intervenuto pubblicamente a favore della realizzazione dell’opera, promettendo l’ingresso finanziario nella Stretto di Messina del colosso di cui era alla guida.
Come Franco Nobili, anche Valori è giunto alla presidenza di Autostrade S.p.A. dopo aver ricoperto incarichi di prestigio nelle maggiori società pubbliche e private d’Italia: entrato alla Rai nel 1965 come consulente, ne divenne presto funzionario; negli anni ‘70 fu vicedirettore generale di Italstrade e consulente del Gruppo Fiat; negli anni ‘80 passò alla vicepresidenza della Sme, la finanziaria agroalimentare dell’IRI presieduta al tempo da Romano Prodi. Dopo una breve parentesi alla presidenza della Sirti, società della Stet, nel 1987 Valori fece ritorno alla Sme, come presidente della GS Supermercati (162). Tre anni più tardi, il nuovo presidente dell’IRI, quel Franco Nobili con cui poi avrebbe condiviso la vicepresidenza dell’IGI, lo nominò nuovamente alla guida della Sme. Infine, nel 1995, durante il governo di transizione di Lamberto Dini, Giancarlo Elia Valori diventò il “Signore delle Autostrade” (163).
Nel corso della sua carriera come top manager nelle grandi società a maggioranza pubblica, Valori si è distinto nella politica delle privatizzazioni e delle dismissioni delle aziende controllate. Da presidente della Sme, ad esempio, ha ceduto le prestigiose marche alimentari Cirio-Bertolli-De Rica ad una società nelle mani di uno sconosciuto finanziere, Saverio Lamiranda, che presto le ha rivendute con insperati guadagni al presidente della Lazio Sergio Cragnotti e alla multinazionale Unilever. Prima di passare alle autostrade, Valori ha avuto il tempo di disfarsi della nota catena di distribuzione alimentare e di ristorazione autostradale Autogrill, trasferita alla famiglia Benetton, che l’ex manager Sme ritroverà nei consigli d’amministrazione dell’Autostrade S.p.A. e del consorzio telefonico Blu. Alla guida della concessionaria Valori convincerà il governo a ridurre la propria presenza societaria e a cedere parte del pacchetto azionario ad una cordata d’imprenditori capeggiata dai Benetton e da Franco Caltagirone, l’editore de Il Messaggero a capo della Vianini costruzioni, socia IGI. Anche Caltagirone, come Benetton, entrerà poi nel consorzio Blu presieduto da Valori (164).
Meno conosciuti sono i rapporti intessuti a livello internazionale dal potente manager, dalla Cina alla Corea del Nord, dal Medio Oriente alla Libia, dalla Romania di Ceasescu all’Argentina di Juan Domingo Peron. Di quest’ultimo, Giancarlo Elia Valori è stato amico e profondo estimatore, al punto di accompagnarlo personalmente in Argentina nel 1973 dopo il lungo esilio in Spagna. Valori non fu l’unico italiano a bordo dell’aereo di Peron. Con lui viaggiò anche il gran maestro Licio Gelli alla cui loggia lo stesso Valori, già massone della ‘Romagnosi’ del Grande Oriente d’Italia, si era affiliato nel 1973. “Licio Gelli – scrive il giornalista Gianni Barbacetto - lo contatta perché sa dei suoi ottimi rapporti con l’Argentina, lo iscrive al Centro Culturale Europeo e lo coinvolge in una società di import-export chiamata Ase. Che cosa importi e che cosa esporti - carne, armi, informazioni - non è dato sapere. Valori comunque sostiene di esserne uscito subito, lasciando Gelli al suo destino” (165). In realtà, i rapporti tra i due si incrinarono nel momento in cui Gelli egemonizzò la relazione con il neopresidente Peron e con il suo braccio destro, il piduista José Lopez Rega. Lo scontro Gelli-Valori si sarebbe concluso con l’espulsione di quest’ultimo dalla P2.
Nonostante l’uscita di scena dall’entourage dei fratelli della superloggia, Giancarlo Elia Valori si è mantenuto in stretto contatto con gli ambienti dei servizi segreti italiani, in particolare con il generale Giuseppe Santovito, con il faccendiere Francesco Pazienza e con il giornalista di Op Mino Pecorelli, successivamente assassinato. Per questi legami certamente non ordinari tra i manager e gli imprenditori italiani, Valori fu ripetutamente chiamato a deporre nelle indagini chiave dei primi anni ‘80, quelle della Procura di Roma sulla P2, del giudice Carlo Palermo sui traffici d’armi, di Rosario Priore sui suoi rapporti con i Paesi arabi, nel contesto dell’inchiesta sulla strage di Ustica. A differenza poi dei colleghi a capo dei maggiori imperi finanziari e imprenditoriali, l’ex presidente di Autostrade S.p.A. è uscito del tutto indenne dal filone d’indagine di Mani Pulite. “L’unica ombra di Tangentopoli che lo ha sfiorato è un versamento di 150 milioni nel giugno 1991; ne parla, al sostituto procuratore di Milano Francesco Greco, Giuseppe Garofano, allora presidente della Montedison: ‘Si è trattato di un versamento da me effettuato a favore di Valori Giancarlo Elia, attuale presidente della Sme, che all’epoca aveva prestato consulenze professionali alla Montedison. Il Valori mi chiese di erogare la somma in nero e per contanti, per motivi fiscali’” (166). Trattandosi di un pur discutibile incarico di consulenza da parte di una società privata, il fatto non poteva essere punibile processualmente. I magistrati poi, non trovarono riscontri alle dichiarazioni dell’ex presidente della Montedison.
Pur conclusasi per oggettivi limiti d’età la carriera manageriale in Autostrade di Giancarlo Elia Valori, esiste ancora chi lo ritenga un personaggio potente da adulare e rispettare. Così gli industriali di Roma e della regione Lazio lo hanno voluto alla presidenza della propria associazione, mentre a fine aprile, l'assemblea degli azionisti di Italintesa S.p.A., riunitisi a Reggio Emilia, gli ha conferito la presidenza onoraria della società. Nel corso dei lavori è stato altresì deliberato un sostanziale aumento del capitale sociale e l’ingresso tra gli azionisti del politologo americano Edward Luttwak, già consulente di Italintesa ed assiduo editorialista nelle testate del Gruppo Monti e della siciliana Gazzetta del Sud. Come Valori, Luttwak vanta un passato contiguo ai poteri atlantici più o meno occulti. E’ stato tra i fondatori e gli animatori del Csis – Center of Strategic and International Studies di Washington, il centro di studi strategici legato alla CIA e al Pentagono americano, noto per aver elaborato l’interventismo Usa a fianco dei regimi fascisti-militari in America latina ed in Europa. Casualità vuole che il Csis abbia avuto in Italia come partner la Fondazione Bonino-Pulejo del presidente onorario della Stretto di Messina, Nino Calarco, nell’organizzazione a Taormina, anno 1993, di una convention internazionale sugli “Effetti delle migrazioni nei paesi industrializzati” (167).
La lobby delle tangenti e dei Servizi
In quota Banca Intesa Bci, il colosso bancario sorto dalla fusione di Cariplo, Ambroveneto e Commerciale Italiana che ha espresso l’interesse ad entrare finanziariamente nell’affare Ponte sullo Stretto, l’Istituto Grandi Infrastrutture ha riservato la vicepresidenza anche all’ex parlamentare Maurizio Pagani, già ministro delle poste e telecomunicazioni nel primo governo Amato e nel successivo di Azelio Ciampi. In molti lo considerano l’anima berlusconiana nella lobby dei grandi costruttori diretta dall’on. Zamberletti. Pagani, infatti, fu accusato dalle opposizioni di essere stato da ministro troppo indulgente con gli interessi televisivi del futuro premier Silvio Berlusconi, già abbondantemente favorito dalla legge Mammì sull’emittenza privata. Di certo dopo l’esperienza governativa nelle file del PSDI, l’on. Maurizio Pagani preferì approdare tra gli Azzurri di Forza Italia con cui poi, fu eletto sindaco di Novara.
In rappresentanza di un altro istituto di credito, la Banca Popolare dell’Emilia, nel direttivo dell'IGI, c’è un altro personaggio di cui è nota la forte simpatia con il partito-azienda del Presidente del consiglio. Si tratta di Claudio Calza, contestualmente consigliere d’amministrazione del Banco di Sardegna e dell’azienda farmaceutica Pierrel, amico come Zamberletti dell'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga (168).
Calza ha fatto molto parlare di sé in questi mesi a proposito dell'inchiesta sulla tangentopoli che ha colpito i vertici politici della Basilicata, primi fra tutti i parlamentari Angelo Sanza (Forza Italia) e Antonio Luongo (DS). Il presidente della banca emiliana, infatti, è stato arrestato con l’accusa di concorso in corruzione per le presunte mazzette che sarebbero state versate dal gruppo imprenditoriale De Sio per aggiudicarsi l’appalto per una nuova sede dell’INAIL. Il Calza avrebbe intrattenuto stabili contatti con i De Sio: il suo ufficio sarebbe stato aperto nello stesso appartamento di Roma dove c’è l’ufficio dell’ingegner Antonio De Sio, mentre in passato Claudio Calza ha ricoperto il ruolo di presidente della Banca Popolare del Sinni, della quale i De Sio risultano azionisti (169).
Particolarmente inquietanti le trascrizioni di alcune telefonate intercettate al consigliere dell’IGI. Claudio Calza era in costante contatto con il dirigente del Sisde, generale Stefano Orlando, in servizio al Quirinale quando era presidente Francesco Cossiga. Il militare è stato accusato dai magistrati di Potenza di rivelazione di segreti d’ufficio e favoreggiamento nei confronti proprio di Calza, per conto del quale avrebbe fatto alcuni accertamenti avvalendosi dei mezzi a disposizione del Sisde. Orlando avrebbe avviato un rapporto con Calza, “forse nella prospettiva di reclutarlo nei servizi segreti, di farne una fonte dalla quale ricevere notizie di prima mano su operazioni economiche e finanziarie per miliardi di lire” (170).
Qualcosa del genere è stato ipotizzato per spiegare le relazioni tra il collega-socio nell’Istituto Grandi Infrastrutture, Giancarlo Elia Valori, e l’allora direttore del Sismi Giuseppe Santovito. Considerate poi le ambigue ‘rivelazioni’ del presidente Zamberletti sulle stragi di Ustica e di Bologna resta l’impressione che nell’esclusivo club delle Grandi Opere, le entrature nei o dei Servizi, siano proprio tante.
I miracolati di Mani Pulite
Centro studi, lobby del Ponte e delle megacostruzioni, club trasversale alle divisioni di corrente e di partito, area grigia tra imprenditoria, finanza e poteri più o meno occulti, confraternita immolatasi al dio delle privatizzazioni comunque e dovunque.
L’IGI è tutto questo e forse più di questo. Di certo, agisce da corte dei miracoli e molte delle società che vi sono affiliate hanno agito da grandi dispensatrici di miracoli e prebende a favore di politici ed amministratori. Hanno temuto di essere spazzate via dal ciclone tangentopoli, ma le lentezze procedurali, i depistaggi nelle indagini, qualche benevolenza in sede processuale, i colpi di spugna dell’esecutivo e delle maggioranze politiche vecchie e nuove, le hanno graziate, miracolate, ne hanno restituito verginità e vigore.
Oggi queste imprese si proiettano alla conquista del fiume di denaro assegnato al piano di devastazione delle risorse territoriali scampate al saccheggio degli anni del Caf, la sigla del triunvirato Craxi-Andreotti-Forlani.
Sono socie illustri le aziende, società e banche che partecipano al ‘consorzio’ per le grandi infrastrutture. Della maggioranza delle aderenti, le cronache giudiziarie di Mani Pulite ne hanno tracciato intime radiografie, ricostruendo metodologie tangentizie sperimentate con successo da Nord a Sud. Su alcune – Grassetto, Impregilo-ex Cogefar - ci siamo soffermati in precedenza per le maxinchieste della Procura di Milano sui lavori alla metropolitana e al passante ferroviario di cui la Rocksoil del ministro Pietro Lunardi ha eseguito consulenze per svariati miliardi.
Possiamo solo aggiungere che il titolare della Grassetto, il costruttore siciliano Salvatore Ligresti, noto per la sua amicizia con Bettino Craxi, oltre ad essere stato attenzionato per l’affare della Metropolitana di Milano, è stato implicato nello scandalo della vendita di alcuni palazzi ad enti pubblici da parte della sua Premafin, e in quello dell’accordo Eni-Sai, secondo cui furono affidati alla società del costruttore, tutti i contratti assicurativi dei dipendenti dell’ente petrolifero, grazie al pagamento di una tangente di diciassette miliardi di lire.
Per ciò che riguarda la grande società di costruzioni del gruppo Fiat è interessante notare come tra le socie nell’IGI, compaiano due delle maggiori banche che ne sono azioniste, la Banca di Roma e la Cariplo, quest’ultima entrata in Banca Intesa, il più accreditato istituto finanziario del Ponte di Messina. Nell’Istituto Grandi Infrastrutture c’è poi un’altra grande azionista dell’Impregilo, la Girola Partecipazioni. Cariplo e Girola hanno condiviso con l’Impregilo, ex-Cogefar, alcuni guai giudiziari: l’allora presidente della cassa di risparmio lombarda, Roberto Mazzotta, è stato arrestato e processato per una storia di tangenti a DC e PSI. Dopo una condanna in primo grado, Mazzotta è stato graziato in appello grazie alla modifica dell’art. 513 del codice di procedura penale che impedisce l’utilizzo delle accuse in fase istruttoria se non ripetute in aula. La Girola, invece, è stata una delle innumerevoli società implicate nello scandalo delle ‘Fiamme sporche’, le mazzette girate ad ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza, una ventina dei quali affiliati alla massoneria, per ottenere un occhio di riguardo su bilanci truccati e fatturazioni di comodo (171).
Sempre nell’IGI, compare un’altra società di riferimento del Gruppo Agnelli, la Fiat Engineering, finita nelle cronache giudiziarie per aver tentato una poco ortodossa sollecitazione su un europarlamentare del PDS per ottenere un parere favorevole per l’appalto al nuovo stadio di Venezia, tentando “di riciclare il progetto bocciato per il ‘Delle Alpi’ di Torino” (172).
Nel sistema spartitorio degli appalti alla metropolitana di Milano, oltre alle società già menzionate, hanno partecipato alcune delle maggiori cooperative ‘rosse’. Due di esse, la Coopsette di Reggio Emilia e la Cmc di Ravenna, sono tra i soci-consiglieri dell’Istituto Grandi Infrastrutture dell’on. Zamberletti.
Grazie all’ingresso nell’affare metro, le cooperative di costruzioni “vengono trattate come tutte le altre aziende: vengono cioè inserite nelle aggiudicazioni preconfezionate degli appalti, in cambio del pagamento ai partiti di una quota percentuale sul valore della commessa” (173).
La Coopsette è inoltre tra le aziende che hanno realizzato il centro commerciale Le Gru di Gugliasco, alle porte di Torino, di proprietà dell’Euromercato-Standa (Gruppo Berlusconi-Fininvest). Per ottenere le autorizzazioni a realizzare il centro commerciale, i proprietari sono sospettati di aver distribuito tangenti ad assessori e consiglieri comunali del capoluogo piemontese.
La Cooperativa Costruttori e Cementisti di Ravenna (CMC), da parte sua, in consorzio con le società Torno, Guffanti e Collini ha ottenuto l’appalto per le forniture del lotto 6 della metropolitana di Milano, che secondo i giudici, avrebbe visto l’esborso di cospicue tangenti a favore degli amministratori meneghini. Altre tangenti sarebbero state versate da Torno, Guffanti e Collini per un altro lotto, il 2/a, della metropolitana. Nello specifico la Torno di Milano, società che è socia della CMC nell’Istituto Grandi Infrastrutture, avrebbe versato per i lavori alla metro di Milano, fra i 300 e i 400 milioni l’anno, per lo meno dal 1987 al 1991 (174).
La cooperativa ravennate invece, è un gruppo che si è caratterizzato per un certo attivismo nel ‘difficile’ mercato delle costruzioni in Sicilia. In particolare, sbaragliando l’Impregilo dell’allora presidente Franco Carraro, la CMC ha ottenuto un appalto di oltre ottanta miliardi per l’ampliamento della base militare di Sigonella. Per lunghi anni quest’infrastruttura strategica delle forze armate statunitensi è stata in mano a consorzi e società delle cosche mafiose locali, che ne hanno gestito lavori infrastrutturali, trasporti, pulizie. Nel corso delle indagini è stato scoperto che un’azienda della famiglia Ercolano, la Sud Trasporti, si è incaricata della movimentazione per conto della CMC di Ravenna. La stessa cooperativa ha affidato alla Trasporiental dei fratelli Francesco e Antonio Pesce, i lavori di pulizia di alcuni appartamenti realizzati a Sigonella. Anche la Trasporiental è tra le società controllate dai gruppi catanesi di Cosa Nostra. Gli inquirenti hanno accertato che tra i dipendenti della cooperativa hanno fatto parte due elementi di spicco del clan Santapaola, entrambi condannati nel 1996 per associazione mafiosa, Natale Di Raimondo e Carmelo Santocono.
Alla mensa delle Ferrovie
Come se non fossero bastati i miliardi della nuova linea metropolitana di Milano, alcune delle società del Club per le Grandi Opere hanno partecipato e partecipano al banchetto dell’Alta Velocità. C’è innanzi tutto il colosso Impregilo, che presiede i due superconsorzi della Bologna-Firenze (Cavet) e della Torino-Milano (Cavtomi). La società del gruppo Fiat, insieme alla controllata Lodigiani ed all’Astaldi, partner nel consiglio direttivo dell’IGI, avrebbero dispensato discutibili contribuzioni a partiti e sindacati “per evitare la microconflittualità nei cantieri” in vista dei progetti sull’Alta Velocità e per l’ampliamento dell’autostrada Firenze-Bologna (175).
L’Astaldi, la Lodigiani-Impregilo con i costruttori Caltagirone e Salini – anch’essi soci dell’istituto presieduto da Zamberletti - fanno parte del nucleo centrale che ha ottenuto dal ‘general contractor’ una fetta consistente dei lavori di realizzazione della moderna rete ferroviaria.
Nel consorzio Cociv che cura i lavori per la tratta dell’Alta Velocità Milano-Genova, c’è poi un’altra associata IGI, la Tecnimont, società d’engineering della Montedison. Con la Tecnimont si sono consorziate due grandi società di costruzioni, una appartenente al gruppo Grassetto-Ligresti, l’altra al gruppo Itinera-Gavio. Anche sulla megacommessa della Milano-Genova incombono le ombre della magistratura, interessata in particolare ad una serie di studi di natura idrogeologica in buona parte “inutili”, ma soprattutto ipercostosi (si parla di una spesa di oltre cento miliardi di lire). Contro la Tecnimont, la procura di Milano sta poi procedendo per falso in bilancio a seguito della scoperta di “consulenze fantasma” eseguite per suo conto da un’azienda irlandese presumibilmente nell’orbita di Pierfrancesco Pacini Battaglia. La fatturazione sarebbe servita a creare fondi neri per possibili tangenti (176).
L’Itinera del costruttore Marcellino Gavio, a sua volta, è finita sotto inchiesta per un giro di mazzette versate ai massimi dirigenti del PSI per ottenere i lavori per la realizzazione della Milano-Serravalle, autostrada gestita da una società per azioni entrata anch’essa nella potente schiera dell’Istituto Grandi Infrastrutture.
Sempre per restare in tema di corruzioni vere o presunte realizzate dai componenti IGI, un capitolo a parte meritano i fratelli imprenditori-editori Leonardo e Francesco Gaetano Caltagirone, titolari della Vianini Lavori.
Entrambi sono stati rinviati a giudizio nell’estate del 2001 per corruzione in atti giudiziari, per una tangente versata in concorso con il commercialista Sergio Melpignano, ai giudici romani Orazio Savia ed Antonino Vinci (quest’ultimo recentemente scomparso), che indagavano sul cosiddetto scandalo dei ‘palazzi d’oro’ che vedeva coinvolti, tra gli altri, i due fratelli costruttori.
In passato un’altra indagine aveva interessato i fratelli Caltagirone per un presunto versamento di un contributo per un miliardo e 600 milioni a favore del cassiere della DC Severino Citaristi per ottenere una variante al piano regolatore sull’area milanese del Portello. Nel 1994 i Caltagirone furono anche sottoposti a misura cautelare, ma quattro anni più tardi, l’inchiesta fu archiviata dal PM Antonino Vinci.
Oltre metro, treni ed autostrade, i tentacoli dei grandi costruttori non potevano non estendersi ai grandi appalti di ‘Malpensa 2000’, la realizzazione del nuovo e inquinante aeroporto di Milano, su cui sono piovute le immancabili indagini giudiziarie. A gestire i due aeroscali del capoluogo (Linate e Malpensa), la Sea, azienda a capitale pubblico-privato, affiliata al gruppo IGI. Il suo vicepresidente, il democristiano Roberto Mongini, fu arrestato nel 1992 perché considerato uno dei ‘cassieri’ dell’intero sistema tangenti di Milano. Per il giro di mazzette alla Sea, a conclusione delle indagini, quarantaquattro persone tra politici, amministratori e dirigenti dell’azienda, sono state rinviate a giudizio. Per ottenere alcuni appalti nel nuovo aeroscalo di Malpensa, il costruttore Paolo Pizzarotti, a capo dell’omonima società che ha una delle vicepresidenze IGI, avrebbe consegnato a Bettino Craxi una tangente di 500 milioni in tre tranche.
Secondo il costruttore parmense, per i lavori di ‘Malpensa 2000’, esisteva un preciso procedimento spartitorio: una società provvedeva alla DC, un’altra al PSI e un’altra ancora al PCI.
Nonostante i soldi a Craxi, Pizzarotti era il referente per lo scudocrociato. “Personalmente ho provveduto a versare il denaro alla DC nelle mani del senatore Severino Citaristi per un importo complessivo di circa un miliardo, un miliardo e 300 milioni”, ha dichiarato Pizzarotti. Il costruttore fu costretto a diversificare ulteriormente la contribuzione, provvedendo, pare, ad ungere qualche funzionario del PCI-PDS di Milano (177).
Sempre in tema di contribuzione illecita ai partiti, il primo grande ‘pentito’ di tangentopoli, il socialista Mario Chiesa, ha raccontato ai giudici che tra le società di costruzioni da cui avrebbe ricevuto grosse tangenti, compariva l’ennesima socia IGI, la Sic di Ugo Fossati.
In società con la Ifg-Tettamanti, una delle tante società per cui ha lavorato come consulente il ministro Lunardi, la Sic ottenne un appalto da sessanta miliardi, ampliabile fino a centoventi, per le costruzioni di alcuni padiglioni del Pio Albergo Trivulzio. “In cambio Sic e Tettamanti avevano versato a Mario Chiesa 100 milioni al mese, fino a raggiungere i sei miliardi di lire pattuiti” (178).
Ad essere incorsa in un procedimento penale è un’altra delle grandi cooperative ‘rosse’ che quasi a sottolineare la trasversalità del mondo della politica e degli affari italiani, siedono al tavolo dell’Istituto Grandi Infrastrutture. Si tratta dell’Iter di Ravenna, il cui direttore Michele Cavallini è stato arrestato a Catania nell’ambito dell’inchiesta per i lavori di costruzione del nuovo ospedale ‘Garibaldi’. Sotto osservazione dei magistrati etnei, oltre alla cooperativa emiliana, Filippo Salamone, l’imprenditore agrigentino divenuto punto di riferimento del ‘tavolino’, il nuovo patto tra politici, imprenditori e Cosa Nostra, e Giulio Romagnoli, della famiglia un tempo proprietaria del gruppo finanziario Acqua Marcia (179).
Romagnoli, presidente della Costruzioni generali Cgp S.r.l., società che ha partecipato ai lavori del ‘Garibaldi’ con Iter, Collini S.p.A. ed Impresem è stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, poiché ritenuto in collegamento con il boss Giuseppe Intelisano, del clan di Nitto Santapaola. E’ da notare che negli anni ’70 la famiglia Romagnoli, insieme ai costruttori siciliani Cassina, Costanzo e Rendo, aveva partecipato alla realizzazione dell’autostrada Palermo-Punta Raisi. Nell’occasione, i materiali di costruzione furono forniti dalle cave di Cinisi, Terrasini e Partinico gestite dai clan diretti da Tano Badalamenti (180).
Romagnoli S.p.A., con Tettamanti, Cogefar-Impregilo, Gruppo Ferruzzi, Lodigiani, Pizzarotti, Grassetto, Consorzio Intermetro e Metropolitana di Milano, hanno una cosa in comune oltre alle tangenti: l’essersi fregiate delle consulenze del ministro Pietro Lunardi, il nuovo Re Mida delle Grandi Opere e del Ponte, l’ingegnere della deregulation in tema di appalti e concessioni
I.G.I.
Consiglio direttivo
Presidente Giuseppe Zamberletti
Vice Presidente Vicario cav. lav. dr. Franco Nobili imp. Pizzarotti
Vice Presidenti :
prof. Giancarlo Elia Valori Soc. Autostrade
dr. Giuseppe Mustica Fiatengineering
geom. Vittorio Morigi C.m.c.
dr. Maurizio Pagani Intesa BCI S.p.A.
consiglieri:
dr. ing. Gianni Battolla Iter
dr. ing. Paolo Bruno Condotte S.p.A.
dr. Paolo Cetroni Astaldi
dr. Giorgio Cimagalli SIC
geom. Donato Fontanesi Coopsette
dr. Giuseppe Gatto Impregilo
dr. Franco Lattanzi Banca di Roma
dr. ing. Valter Montevecchi Vianini S.p.A.
dr. Guelfo Tagliavini Alcatel
dr. ing. Massimiliano Di Torrice Oice
dr. Mario Lupo Agi
dr.Claudio Calza Banca Pop. Emilia Romagna
Tesoriere dr. Francesco S. Salini Salini S.p.A.
Collegio dei Revisori
Presidente dr. Paolo Resta
Componenti:
dr. Adolfo Leonardi
rag. Maurizio Silvi
I SOCI
Alcatel – Business Distribution; Alstom Power Italia; Assiteca; Astaldi; Autostrade S.p.A.; Autostrade Serravalle; Baldassini-Tognozzi; Banca di Roma; Banca Popolare dell’Emilia Romagna; Banca Popolare di Milano; Gruppo Banca Popolare di Vicenza; C.M.C. – Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna; Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A.; Coopsette; De Lieto Costruzioni Generali; A & I Della Morte S.p.A.; Ferrovie Emilia Romagna; Fiat Engineering; Fioroni Sistema; Sviluppo Sistema Fiera di Milano; Girola; Grandi Lavori Fincosit; Impresa Grassetto; Impregilo; Intesa BCI; Iter – Cooperativa Ravennate; Lombardini Ruscalla Costruzioni; Pizzarotti & C.; Pontello S.p.A.; Safab Società Appalti e Forniture per Acquedotti e Bonifiche; Salini Costruttori; System Service; S.A.T.A.P. S.p.A.; S.E.A.; S.I.C. – Società Italiana Cauzioni; Taverna S.p.A.; Tecnimont; Tenax; Todini Costruzioni Generali; Torno; Trevi-Finanziaria Industriale; Unicalce; Unieco; Vianini Lavori.
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L’Istituto del Ponte
"La società Stretto di Messina può avere un grande ruolo nella realizzazione del Ponte - ha dichiarato il presidente dell'IGI, Giuseppe Zamberletti poco prima di essere chiamato alla guida della S.p.A. del Ponte. "La società può diventare, per conto del Governo, stazione appaltante, perché avendo elaborato il progetto di massima conosce bene tutti i termini del problema, ed esercitare l'alta sorveglianza sul concessionario perché ha al suo interno non solo il Ministero del Tesoro ma anche Ferrovie e ANAS che sono gli utilizzatori del progetto. La società è quindi il più naturale rappresentante della committenza" (181).
Ha le idee chiare in materia l’on. Zamberletti. Trasformare la società di progettazione in entità privata, fuori da ogni controllo pubblico e farle assumere la responsabilità dell’intero ciclo dell’opera, dal reperimento delle risorse finanziarie, alla gestione del bando di gara, all’assegnazione degli appalti, fino alla realizzazione delle infrastrutture e magari alla futura gestione delle attività d’attraversamento del Ponte. Quando il governo avrà definito il destino della società concessionaria e la quota di contributo pubblico da allocare, spiega Zamberletti, la Stretto di Messina potrà operare ”per parti e/o per fasi, ad esempio come soggetto promotore e/o poi appaltatore e/o poi affidatario dei lavori e/o poi gestore a regime, etc”.
Al futuro della società del Ponte, l’Istituto Grandi Infrastrutture ha riservato studi, analisi e commissioni di lavoro. Nei fatti si è sostituito al parlamento e all’esecutivo, i quali, pur rilanciando mediaticamente il sogno-mito di un’infrastruttura di collegamento tra le coste di Scilla e Cariddi, mai hanno affrontato con serietà una questione di per sé strategica. Nel 2001, l’IGI delle grandi società di costruzione e del cuore bancario d’Italia, ha istituito una speciale commissione di lavori “Ponte sullo Stretto”, affidandone il coordinamento al dottor Baldo de Rossi, già amministratore delegato della Stretto di Messina, quota Italstat, accanto a Nino Calarco presidente e Gianfranco Gilardini vice (182).
I risultati della commissione di studio sono stati resi pubblici assai di recente e il testo finale del documento è consultabile su internet. Ne riportiamo i passi più significativi.
L’IGI, ha valutato la fattibilità finanziaria dell’opera e la situazione giuridica dell’attuale società Stretto di Messina, di cui innanzi tutto se ne chiede la ricapitalizzazione e privatizzazione, anche se ad oggi nessuna grossa azienda internazionale si è fatta avanti per partecipare all’ipotesi progettuale del Ponte (183).
Per rendere appetibile l’investimento e l’ingresso dei soggetti di natura privata, secondo l’IGI, sarà però prima necessaria “l’emanazione della norma speciale che consenta alla neo società di assumere le responsabilità dell’intero ciclo operativo e delle attività tecnico-finanziarie”.
La commissione ‘Ponte sullo Stretto’ prefigura due ipotesi: la prima prevede l’abrogazione della legge 1158 del 1971 che istituisce la società pubblica per la progettazione e la costruzione dell’infrastruttura per l’attraversamento dello Stretto, “attraverso un provvedimento legislativo e la conseguente eliminazione dell’atto di concessione”, per poi mettere in gara la concessione stessa, previa acquisizione del progetto di massima predisposto.
La seconda ipotesi prevede l’ingresso di un socio privato nella Stretto di Messina, affidando il pacchetto di controllo dell’IRI al concorrente miglior offerente.
Quest’ultima possibilità è stata però scartata dall’Istituto per le Grandi Opere poiché “in conflitto con le attuali norme europee”, soprattutto dopo che la Commissione dell’Unione ha diffidato il governo italiano di continuare a considerare la Stretto di Messina concessionaria della realizzazione della megainfrastruttura (184). “Resta dunque sul campo, se si vuole evitare una lunga e logorante controversia con la commissione UE, solo l’ipotesi di porre fine all’attività della società Ponte sullo Stretto, come concessionaria e di mandare in gara per la scelta di un concessionario di costruzione e gestione il progetto di massima approvato con prescrizioni dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e che attende l’approvazione formale del Governo”.
Il documento elaborato dall’Istituto Grandi Infrastrutture passa poi ad elencare una serie d’ipotesi per accelerare la cantierizzazione e l’esecuzione dell’opera.
Per il club dei signori del cemento è necessaria la “modifica delle norme ordinarie in tema di opere pubbliche” onde assicurare la “eccezionalità delle molteplici attività di acquisizione dei fondi, di gestione amministrativa, d’affidamento delle commesse, di scelta fiduciaria dei fornitori, di provvista dei materiali, di reperimento della manodopera e di tutto ciò che rende unica la realizzazione dell’opera”.
Alla nuova Stretto di Messina in mano ai privati, cioè, devono essere affidati pieni poteri, “poteri eccezionali”, quasi come ci si trovasse di fronte ad una grande emergenza (un terremoto? una guerra? una catastrofe naturale?).
Per l’idea del ‘Ponte chiavi in mano’ sono così necessarie l’adozione di “semplificazioni procedurali che contraddistinguono le autorizzazioni o le contrattazioni previste per i grandi investimenti privati industriali”, ulteriori contributi pubblici “che oltre all’apporto in conto capitale”, prevedano “appropriate forme di esenzione/riduzione di IVA, di rimodulazione del costo del lavoro, di tassazione differenziata per comparti e fasi di realizzazione, di copertura programmata dell’eventuale differenziazione costi/ricavi di gestione” (185). Come dire che l’Opera che doveva prevedere la finanziazione privata, di privato avrà solo la gestione delle risorse e dei profitti, scaricando costi e rischi all’erario pubblico e per di più bypassando le norme in tema di contratti di lavoro e sicurezza nei cantieri (186).
Come se ciò non bastasse, l’Istituto Grandi Infrastrutture ritiene che alla riformulata Società Stretto di Messina, dovrebbero essere infine consentite “potestà amministrative pari a quelle di una autonoma ‘autorità di territorio’, perlomeno responsabile di tutte le attività antecedenti la realizzazione fisica dell’opera, ivi compreso il riassetto ambientale ed urbanistico della zona” (187).
Una mostruosità giuridica che avrebbe come conseguenza l’extraterritorialità di diritto e di fatto dello Stretto, esautorando i poteri degli enti locali in tema di ordinamento territoriale, pianificazione e regolazione urbanistica, ecc. Un ulteriore regalo ai poteri criminali e alla borghesia mafiosa che già regna sovrana tra Scilla e Cariddi.
“Le cosche mafiose – scrive Rocco Sciarrone - hanno storicamente dimostrato una grande capacità di adattamento, riuscendo a sfruttare a proprio vantaggio occasioni economiche che nascono e si sviluppano in un clima di emergenza, che poi esse stesse hanno cura di alimentare nel tempo”. Proprio per non creare opportunità favorevoli alla mafia, il rapporto di Nomos sul ‘rischio criminalità’ diffidava che i “caratteri di straordinarietà che indubbiamente presenta l’opera” fossero tradotti in emergenzialità, “ovvero in attori che giustifichino procedure d’urgenza o eccezionali, oppure corsie preferenziali o speciali, che di fatto possono finire per aggirare le normative e gli standard previsti e richiesti” (188). La divergenza con lo Zamberletti pensiero è proprio insormontabile.
L’ordine è esautorare la legge ed eliminare i controlli
All’auspicata realizzazione del Ponte sullo Stretto lo stesso Giuseppe Zamberletti, ha dedicato ampi stralci della sua relazione di chiusura dell’anno 2001 davanti a consiglieri e soci dell’Istituto Grandi Infrastrutture. Definendo il Ponte “opera emblematica per l’effetto di trascinamento del processo di infrastrutturazione del Mezzogiorno”, l’ex pluriministro ha integrato il pacchetto di richieste destinate all’esecutivo per dare consistenza all’ipotesi progettuale: smantellamento della legge Merloni che regola l’aggiudicazione degli appalti per le grandi opere, deregulation in tema di estensione del contratto integrato (general contractor) e project financing (189).
“Il Ponte sullo Stretto – ha specificato Zamberletti - è un esempio di operazione che possiamo tentare in project financing - e in questo abbiamo convinto anche l’attuale Governo, impegnato a sondare la disponibilità del mercato - sempre che non si debba sottostare ai vincoli temporali legati alla durata di una concessione che, per opere di particolare rilevanza, deve essere valutata caso per caso (190).
Più specificatamente, l’Istituto Grandi Infrastrutture punta alla sostanziale modifica delle previsioni della legge Merloni relative alla percentuale del contributo pubblico all’investimento nell’opera (attualmente le norme pongono il limite della partecipazione statale al 50%) e alla durata della concessione, in modo da estenderla oltre l’attuale limite massimo dei 30 anni.
Entità dell’investimento pubblico e durata della concessione sono i “punti critici” emersi durante gli incontri tra i maggiori istituti bancari e il ministero delle infrastrutture, relativi alla fattibilità finanziaria del Ponte sullo Stretto.
"Se non vengono eliminati i vincoli giuridico-amministrativi della Merloni, il progetto non sta in piedi” è il commento unanime dei banchieri. “Se la concessione non può andare oltre i 30 anni, sarà difficile anche recuperare il servizio del debito perché stiamo parlando di un progetto da oltre 9mila miliardi. (...) Considerando le stime di mole di traffico sul ponte e una tariffa concorrenziale con quella dei traghetti, l'operazione non è concepibile se poi lo Stato non contribuisce con più del 50%". Per le banche, quindi, "è indispensabile che la legge obiettivo, attualmente all'esame del Parlamento, intervenga su questi due punti.
Prima di allora, è impossibile per gli istituti di credito valutare fondatamente la finanziabilità del progetto: è difficile per una banca pronunciarsi sul lato economico-finanziario quando non conosce nemmeno quanto può essere il contributo dello Stato" (191).
Il governo ha fatto proprie le considerazioni del Club per le Grandi Opere, varando a fine dicembre 2001 una legge delega finalizzata a porre le condizioni per la realizzazione di un programma nazionale di diciannove infrastrutture definite strategiche, tra cui ovviamente il Ponte, e che prevede investimenti quantificati in 235 mila miliardi di lire (192).
Più concretamente, il cosiddetto decreto Lunardi prevede una serie di interventi tesi “a rimuovere gli ostacoli che hanno impedito una massiccia partecipazione dei privati ai finanziamenti delle opere”.
Al proposito viene individuato uno strumento, il general contractor o contraente generale, già sperimentato in occasione dei lavori per le tratte dell’Alta Velocità interappenniniche, di cui sono noti gli effetti ambientali e il fitto sistema corruttivo generato. La legge Merloni ne limitava il ricorso solo alle opere la cui redditività era così elevata da consentire un apporto di capitali privato superiore al 50% dell’onere. Con la ‘legge obiettivo’ si estende l’intervento del general contractor alle opere stretagiche di cui è lo Stato ad essere il principale se non il solo finanziatore.
Unico limite per il soggetto aggiudicatore (il consorzio delle aziende private), il rispetto delle normative europee in tema di evidenza pubblica e di scelta dei fornitori di beni o servizi, “ma con un regime derogatorio rispetto alla legge 109 del 1994 per tutti gli aspetti di essa non aventi necessaria rilevanza comunitaria” (193).
Come spiegato dallo stesso ministro Lunardi, attraverso le competenze affidate al general contractor, il contraente viene individuato come “esecutore con qualsiasi mezzo di un’opera rispondente alle esigenze specificate dal soggetto aggiudicatore”.
Il contraente, cioè, “è un costruttore di opere che, per altro, a differenza dell’appaltatore di lavori pubblici regolato dalle leggi attuali, può realizzare l’opera ad esso affidata con qualsiasi mezzo, cioè anche subaffidandola in tutto o in parte a terzi dallo stesso prescelti e coordinati” (194).
Lo Stato cioè, rinuncia rinuncia ad ogni controllo sulla realizzazione dell’opera (dalla progettazione, alla gestione degli appalti, alle varianti in corso d’opera, ecc.), anche se i costi dell’infrastruttura graveranno interamente sul bilancio pubblico. Enti locali e regioni saranno del tutto esautorati; vengono ridotte le possibilità di ricorso al TAR e limitati gli effetti della sospensiva in attesa di giudizio; si da ampia possibilità ai contraenti di realizzare le grandi opere senza la Valutazione di impatto ambientale, sostituendo la normativa con un ‘accertamento di compatibilità ambientale’, di cui sarebbe responsabile il CIPE (195).
L’affidamento alle aziende private del rapporto diretto con il territorio, scavalcando il ruolo di intermediazione dei soggetti pubblici locali, porrà ancorà di più le opere a rischio d’infiltrazione mafiosa.
Saranno possibili nuovi e più stringenti accordi tra le cosche e i soggetti incaricati, e nel caso, improbabile, in cui ci si vorrebbe opporre al dominio mafioso, il privato possiede meno strumenti di reazione nei confronti della violenza criminale” (196).
“La legge Obiettivo – ha commentato l’economista Ada Becchi - è l’ennesimo provvedimento, varato per ‘sregolare’ le procedure per la realizzazione di opere pubbliche. Il riferimento, in questo caso, è alla legislazione per la tutela dell’ambiente, ma più ancora alla legislazione cosiddetta Merloni, approvata negli anni ‘90, e motivata in larga parte dalla necessità di por fine agli sprechi ed alla corruzione che avevano a lungo dominato il campo” (...). Il recupero del passato, delle deroghe, del ricorso indiscriminato al general contractor, ecc., è così drastico e sfrontato da lasciare interdetti” (197).
Dopo i colpi di spugna giudiziari al Malaffare di tangentopoli, un dispositivo legislativo che sigilla il ritorno ai circuiti imprenditoria-politica-mafia per il saccheggio delle risorse e del territorio.
Le alternative nel cassetto
Se a governare la politica, l’economia e l’informazione non ci fosse a Messina il ‘partito del ponte’, probabilmente sarebbero stati cantierizzati tutta una serie di progetti, che avrebbero risposto positivamente alla domanda di lavoro e di sviluppo del territorio.
Il rilancio della centieristica in sostegno al potenziamento del traghettamento pubblico nello Stretto e la realizzazione di collegamenti veloci con l’aeroporto di Reggio Calabria e le isole minori dell’arcipelago eoliano; l’attivazione di quei servizi pubblici la cui inesistenza accentua il gap con le aree urbane del Settentrione e ha drammatiche ricadute in tema di vivibilità; il recupero del patrimonio storico e artistico danneggiato dal terremoto del 1908 e dall’incuria di tutte le aministrazioni locali post-ricostruzione; il risanamento dei quartieri periferici dove imperano le baracche e sono inesistenti spazi verdi e luoghi di socializzazione; la manutenzione delle abitazioni private e degli edifici pubblici del centro storico le cui realizzazioni sono fatiscenti e ad alto rischio di crollo; una politica di prevenzione antisimica in un’area dove i sismologi attendono a breve un evento di dimensioni simili a quello subito all’inizio del XX secolo; la riqualificazione del territorio collinare devastato dall’abusivismo edilizio e dalla cementificazione dei torrenti, già oggetto di disastrosi nubifragi; la valorizzazione turistica del porto e la realizzazione di parchi urbani per il recupero dell’antico sistema fortilizio; la valorizzazione di alcune aree paesaggistiche straordinarie, oggi in stato d’abbandono (la zona falcata, Capo Peloro, i monti Peloritani); l’impegno sul fronte delle nuove tecnologie ove può avere un ruolo propulsivo l’Università, caratterizzatasi sino ad ora come soggetto distributore di reddito ed appalti; l’investimento nell’agricoltura biologica e il rilancio delle produzioni tipiche dell’area (agrumi, olio d’oliva, vigneti); la valorizzazione dell’artigianato locale e il recupero delle antiche produzioni artistiche; lo sfruttamento delle energie rinnovabili (proprio lo Stretto ha un patrimonio energetico incommensurabile – si pensi all’energia eolica e alle correnti marine); il finanziamento diretto e la facilitazione di accesso al credito per tutto il ‘terzo settore’ in vista dell’incentivazione delle imprese sociali, dell’associazionismo e delle cooperative giovanili (quest’ultime finalmente libere dalle relazioni clientelari e di sperimentazione della flessibilità d’orario e di salario che le hanno caratterizzate sino ad oggi).
Ecco alcune delle alternative possibili, reali, credibili, al modello obsoleto e insostenibile del Ponte di Scilla e Cariddi.
Rispondere ai criteri di un’economia autocentrata che valorizzi le risorse locali e dia risposte concrete ai bisogni della gente.
Mettere innanzi tutto i valori della difesa del patrimonio esistente nell’area dello Stretto, contro speculazioni, saccheggi, rapine dei Signori del Ponte. Pensare, creare, sognare, organizzare, la Vita contro la cultura della Morte, il ritorno alla relazione ancestrale con il territorio e l’ambiente contro il dominio mafioso dell’acciacio e del cemento.