Teodorico Rosati, Ispettore sanitario sulla nave degli emigranti
“Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante.
L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile.”
La traversata durava 25/30 giorni, talvolta qualche giorno meno, dipendeva dalle “carrette del mare”. I nostri emigranti arrivavano a New York e, fino al 1892, il centro deputato alla loro accoglienza era Castle Garden che però, ad un certo momento, si rivelò insufficiente ad accogliere questa enorme massa di gente. Viste le dimensioni dell’esodo, si decise così di trasformare Ellis Island - un piccolo isolotto che si trova di fronte a Manhattan, un tempo adibito dall’esercito americano a deposito di armi e di munizioni - in centro di accoglienza. Ellis Island: il “non luogo”, il “luogo dell’erranza”, “l’isola delle lacrime”, come venne definita da Georges Perec.
Ad Ellis Island i nostri emigranti dovevano subire tutta una serie di controlli sanitari da parte di ispettori che incutevano timore con le loro divise e con il loro portamento. Uno dei primi controlli, che questi ispettori sanitari facevano, era guardare loro gli occhi per vedere se avessero il tracoma; seguiva tutta una serie di altre ispezioni di carattere sanitario. Se ci fosse stato qualche caso dubbio, veniva inviato ad una commissione speciale che avrebbe eseguito un esame più attento. Naturalmente, se si fosse sospettato che il nostro emigrante potesse essere portatore di qualche malattia contagiosa, oppure fosse stato, anche più semplicemente, troppo in là negli anni, oppure non avesse avuto i soldi, veniva talvolta mandato indietro, rispedito a casa.
A proposito di Ellis Island Georges Perec, poeta francese, dice:
“L’ispettore disponeva di circa due minuti per decidere se l’emigrante aveva o no il diritto di entrare negli Stati Uniti e prendeva questa decisione dopo avergli posto una serie di 29 domande: come si chiama?, da dove viene?, perché viene negli Stati Uniti?, quanti anni ha?, quanti soldi ha?, dove li tiene?, me li faccia vedere; chi ha pagato la sua traversata?, ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui?, ha degli amici qui?, parenti?, qualcuno può garantire per lei?, che mestiere fa?, lei è anarchico?. Se il nuovo arrivato rispondeva in un modo che l’ispettore riteneva soddisfacente, l’ispettore stampigliava il visto e lo lasciava andare dopo avergli dato il benvenuto “Welcome to America”; se c’era il benché minimo problema scriveva sul foglio S.I., che voleva dire Special Inquiry, ispezione speciale, e l’emigrante veniva convocato, dopo una nuova attesa, davanti a una commissione composta da tre ispettori, uno stenografo e un interprete, che sottoponevano il candidato all’emigrazione a un interrogatorio molto più approfondito.”
“Quel che io Georges Perec sono venuto ad interrogare qui è l’erranza, la dispersione, la diaspora. Ellis Island per me è il luogo stesso dell’esilio, vale a dire il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte; è in questo senso che queste immagini mi riguardano, mi affascinano, mi implicano, come se la ricerca della mia identità passasse dall’approvazione di questo luogo di scarica, dove funzionari sfiancati battezzavano americani a palate. Quel che per me si trova qui non sono affatto segnali, radici o tracce, ma il contrario, qualcosa di informe al limite del dicibile, qualcosa che potrei chiamare reclusione o scissione o frattura.”
L’emigrante che superava l’ostacolo dei meticolosi e puntigliosi controlli di Ellis Island, si trovava di fronte al problema impellente della sistemazione, dell’abitazione, del lavoro. Molti dei nostri emigranti arrivavano in America attraverso reti informali, chiamati da amici, da parenti, e così via, e questi erano i più fortunati perché potevano confidare su un riferimento fidato, importante; altri invece, che si erano imbarcati ed erano arrivati in America senza queste reti protettive, arrivati sulla Battery di New York, erano facile preda di personaggi poco raccomandabili, i boss, che hanno dato vita a un’abbondante letteratura sul cosiddetto “boss system” - come venne chiamato -, un’organizzazione composta da padroni italiani che masticavano un po’ di inglese e si preoccupavano, in modo molto interessato, della sistemazione dei nostri emigranti, mettendoli a pensionamento - i cosiddetti “bordanti”, corruzione del termine inglese “boarding house” - oppure si preoccupavano, sempre in modo interessato, di inviarli nei luoghi di lavoro. Anche questo è un aspetto doloroso della nostra emigrazione perché sono state fatte cose veramente infami alle spalle dei nostri emigrati da parte di altri nostri connazionali, che lucravano tangenti usurarie, scandalose. Il governo americano, quando venne a conoscenza del fenomeno, cercò, seppur tardivamente, di reprimerlo
“QUANDO AD EMIGRARE ERAVAMO NOI” Da Storie di Cuggionesi in America L’accoglienza in terra americana dei nostri emigranti - come dicevo - non è stata affatto benevola; ne avvennero veramente di tutti i colori perchè c’era un clima di profonda ostilità Il principale motivo, tra i tanti, per cui i nostri emigranti generavano e attiravano ostilità, era costituito dal fatto – come sostenevano gli esponenti del mondo politico di allora, i sindacati operai americani e tanti altri - che gli emigranti italiani non intendevano affatto stabilirsi in America ma erano “uccel di passo”, come venivano definiti. Si diceva: vengono qua, lavorano, fanno mondo a sé, consumano pochissimo - ed era vero perché era veramente proverbiale la frugalità dei nostri emigranti, che risparmiavano fino all’osso - e poi sono sudici, sono cattolici, insomma, sono poco assimilabili. E proprio in questo clima di ostilità diffusa avvengono dei fatti atroci, frequentissimi episodi di schiavitù o di semi schiavitù, il cosiddetto “péonage” (questo il termine usato), perchè i nostri emigranti, partiti magari con un biglietto prepagato dai reclutatori fazenderos - cosa che succedeva spesso e che successe soprattutto per l’emigrazione veneta che negli anni Ottanta andò in Brasile a lavorare nelle fazendas delle piantagioni di caffé, dove trovò i fazenderos ancora legati ad una mentalità schiavistica –, una volta giunti a destinazione, venivano sottoposti a violenze incredibili, che andavano dalle bastonature alle violenze alle donne, e venivano perfino incatenati alle caviglie perché non potessero scappare. Il “péonage” ci fu anche negli Stati Uniti dove gli emigranti, che erano partiti con il biglietto prepagato, andavano a lavorare nelle piantagioni di cotone della Louisiana, New Orleans e dintorni, o del Texas, ma dove questo biglietto, che i piantatori avevano anticipato, non finivano mai di pagarlo e il loro debito non era mai estinto: dovevano infatti rifornirsi presso i negozi delle compagnie dei piantatori e lì dovevano spendere l’ira di Dio. Questo per dare un’idea dello sfruttamento terribile cui erano sottoposti i nostri emigranti. Un’altra manifestazione di ostilità era rappresentata dalla pratica della cosiddetta legge di Lynch, i linciaggi. I nativi americani, ossessionati da xenofobia e da sentimenti non certo nobili, non linciarono solo i neri ma anche tantissimi italiani. Gli episodi più clamorosi in questo senso sono quelli di Tallulah (1899) nella Louisiana o di New Orleans (1891), che fu forse quello più clamoroso e che causò anche un piccolo incidente diplomatico tra i rispettivi paesi. Tre immigrati di origine siciliana vennero a ingiustamente accusati di aver ucciso lo sceriffo del luogo e imprigionati, ma l’opinione pubblica di New Orleans non intendeva aspettare il processo. Il clima antitaliano era così radicato e diffuso che una folla di 20.000 persone - dicono le cronache del tempo - si radunò nella piazza, diede l’assalto alle carceri, ne sfondò la porta, prese i tre malcapitati, li impiccò e, non sazia di questo, culminò l’opera crivellandoli di colpi. Sono tantissimi i fatti del genere che credo debbano essere ricordati. Questa nuova emigrazione, come venne definita l’emigrazione italiana, incompatibile e non assimilabile per le ragioni che abbiamo detto, creò una situazione molto particolare che, paradossalmente, vide gli industriali americani favorevolissimi all’importazione di questa manodopera. Da questo punto di vista gli industriali americani erano ultraliberisti; per converso le unioni sindacali americane – e in particolare la Federazione americana del Lavoro, presieduta da Samuel Gompers, emigrato di origine ebraica - erano ferocemente contrarie a questa nuova emigrazione e, soprattutto, agli italiani. Perché? vien da chiedersi. Una spiegazione c’è, perché tutto, secondo me, ha una sua razionalità: ad inizio secolo l’industria americana si stava riorganizzando su basi efficientistiche - pensiamo ad Henry Ford a Detroit e a tutta l’organizzazione scientifica tayloristica del lavoro - e non aveva più tanto bisogno degli operai specializzati di antico retaggio migratorio, degli operai qualificati e specializzati inglesi o tedeschi, tutti inquadrati nella Federazione Americana del Lavoro, ma di una nuova figura di operaio - che in tempi recenti avremmo definito l’operaio massa - adatto ad assolvere a operazioni semplici alla catena di montaggio e via dicendo. Gli imprenditori americani avevano bisogno di questa nuova figura che si accontentava di salari inferiori e faceva la concorrenza alla Federazione del Lavoro di Gompers, che si muoveva invece in un’ottica corporativa. All’interno di questo quadro si accende una feroce polemica tra i sindacati e gli industriali, nella quale purtroppo i sindacati americani non brillano di lungimiranza perché, anziché gestire consapevolmente la nuova situazione produttiva che si era creata, intavolando una concertazione - come diremmo oggi - con i padroni americani, assumono una posizione chiusa, corporativa, tesa a difendere i propri privilegi. Da qui l’accusa ai nostri operai di essere “scabs”, crumiri, seguita da tutta una serie di ingiurie, il cui elenco è lunghissimo, rovesciate sugli emigranti italiani, la più usata delle quali era “dago”, termine dall’etimo incerto, che non vi saprei tradurre, ma che era sicuramente un’ingiuria infamante. Da questo clima deriva la legislazione, di cui vi parlavo prima, del Contract Labor e delle altre norme restrittive. Nel 1907 si insedia negli Stati Uniti d’America la commissione Dillingham, come viene chiamata dal nome del suo presidente, che comincia a studiare gli effetti della nuova emigrazione poco desiderata e che, nel 1911, pubblica, in 41 volumi, i risultati del suo lavoro, che viene definito “la Bibbia dell’emigrazione”. Si trattava in realtà di un vero e proprio distillato di xenofobia e di razzismo dal quale derivarono tutte le successive norme restrittive, quali il Literacy Act del 1917 e i Quota Act del 1921 e 1924, che conclusero questa legislazione sull’immigrazione. Di cosa si trattava? La legge del 1917, che sottoponeva i nostri emigranti a un compitino di alfabetizzazione, era una normativa abbastanza restrittiva perché la maggior parte dei nostri primi emigranti era analfabeta e una normativa di questo genere aveva, conseguentemente, un valore punitivo. Ciononostante, nel 1917 una buona parte dei nostri emigranti era abbastanza alfabetizzata e gli emigranti cuggionesi in particolare erano i più alfabetizzati. Sapete perchè? Perché proprio in quel periodo la locale società di mutuo soccorso e la cooperativa dei terrazzieri di Cuggiono avevano organizzato una scuola professionale complementare di disegno, come era ufficialmente denominata, che era in realtà una scuola per emigranti, dove si insegnava l’abc dell’emigrazione e, soprattutto, si faceva scuola. Si diceva: cuggionesi per andare in America dovete sapere leggere e scrivere. Da questo punto di vista quindi i nostri emigranti furono i più avveduti, i più accorti, i più preparati. Soffrirono però tutti quando nel 1921 venne emanata la prima legge Johnson, dal nome del suo presidente, meglio nota come la prima legge Quota Act, cioè la prima legge che contingentava l’emigrazione. Funzionava nel seguente modo: poteva entrare negli Stati Uniti il 3% dell’etnia già residente in riferimento al censimento federale del 1910. Era una bella restrizione. Alcuni anni dopo però gli Stati Uniti, non paghi con una sorta di perfidia nel voler allontanare o contenere al massimo l’emigrazione latina per favorire quella nord europea, varano ulteriori restrizioni di quota: non più il 3% ma il 2%, riferito non al censimento federale del 1910 ma a quello del 1890, quando prevaleva l’emigrazione nord europea; tutto ciò a scapito, di fatto, dell’emigrazione italiana che, dal 1924 in poi, si ridusse a 3.400 emigranti che ogni anno potevano entrare negli Stati Uniti. E gli ispiratori principali di questa legislazione restrittiva sull’emigrazione furono i sindacati. I nostri emigranti, per quanto sprovveduti, per quanto reietti dalla società, cercarono di organizzarsi e di far fronte a questa ostilità diffusa. Nel 1905 a Chicago nasce un nuovo sindacato denominato Lavoratori Industriali del Mondo, meglio noto con la sigla IWW, che si propone di tutelare e difendere i diritti dei lavoratori di tutto il mondo, e in specie di quelli italiani, riuscendo ad ottenere anche qualche risultato e a rompere un po’ il monopolio dei sindacati della Federazione Americana del Lavoro che, fra l’altro, precludeva l’ingresso ai nostri lavoratori, perchè faceva pagare addirittura una tassa di ingresso di 100 dollari; chi si voleva iscrivere al sindacato di Gompers doveva pagare 100 dollari, una cifra inaccessibile. I nostri connazionali erano l’anima di questo nuovo sindacato fondato sulla solidarietà e sulla tolleranza, dove non c’era discriminazione etnica o di nazionalità. Proprio questo sindacato, sotto la guida di alcuni esuli politici italiani – cito ad esempio Giacinto Menotti Serrati, dirigente socialista italiano che all’inizio del secolo dirigeva il periodico, pubblicato a New York, “Il Proletario”; Carlo Tresca; Luigi Galleani, e così via -, diede vita a battaglie memorabili, come quella di Lawrence-Massachusetts del 1912, quando gli operai tessili italiani diedero organizzarono un memorabile sciopero, oggetto addirittura di rappresentazioni teatrali, coronato dal successo; oppure lo sciopero di Paterson-New Jersey, l’anno successivo, memorabile anch’esso ma non caratterizzato dal successo dell’anno precedente. Ritengo doveroso sottolineare il fatto che i sindacati americani siano stati i principali ispiratori di questa ottica negativa, piccina, meschina, così come sono stati i principali ispiratori della legislazione americana restrittiva dell’immigrazione. |
“QUANDO AD EMIGRARE ERAVAMO NOI” Da Storie di Cuggionesi in America Il percorso dell’integrazione degli emigrati italiani è stato duro, faticoso e difficile, più che per le precedenti emigrazioni. Un momento importante è stato, paradossalmente, lo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1916 il presidente Wilson e gli Stati Uniti d’America entrano in guerra accanto ai paesi dell’Intesa, alleati quindi dell’Italia, e il presidente Wilson in persona fa un appello a tutte le etnie, a tutte le colonie stanziate negli Stati Uniti d’America, compresi naturalmente anche gli italiani, affinché partecipino a questa guerra patriottica, promettendo loro che chi si fosse arruolato - e si arruolarono anche i cuggionesi – avrebbe avuto automaticamente la cittadinanza americana. Purtroppo questa parentesi fu di breve durata. Nel 1917 scoppiò la rivoluzione in Russia e, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, si accese in tutto il mondo una vera psicosi da caccia alle streghe, con la paura dei rossi e il Ku Klux Klan che si organizzava proprio in quel periodo, inizio anni Venti. Se è vero che xenofobia e razzismo avevano una forte componente antiebraica, è tuttavia altrettanto vero che di questo clima da caccia alle streghe soffrirono e pagarono un prezzo pesante anche i nostri emigrati italiani. Il 26 settembre del 1920, un altro 11 settembre, un emigrato italiano, proprio per dare una risposta a questa caccia alle streghe di cui molti italiani furono vittime – si parlò di un migliaio di italiani internati nei campi degli Stati Uniti –, per ritorsione, fece un terribile attentato dinamitardo a Wall Street, ci si è dimenticati di questo episodio ma è reale, cui fece seguito una repressione ancora più tremenda nei confronti degli italiani, che portò, tra l’altro, all’arresto di Sacco e Vanzetti che, il 23 agosto 1927, vennero condannati alla sedia elettrica. Ritornando all’ultima legge restrittiva, la Quota Act del 1924, che di fatto chiuse le porte all’immigrazione italiana negli Stati Uniti, c’è da dire che il fascismo, da parte sua, ci mise del proprio nel frenare l’emigrazione, sostenendo che non si doveva più emigrare, anzi bisognava cassare la parola emigrante, perchè vergognosa, e non bisognava addirittura neanche più parlare di emigrazione e di emigranti, ma semplicemente di italiani all’estero. La situazione dell’emigrazione italiana si aggravò ancor più col grande crac del ’29 che colpì tutti e immiserì, annichilì i pochi risparmi dei nostri italiani. Un’altra fase importante fu l’adesione degli italiani a Roosevelt, al nuovo corso del New Deal, che ottenne un sostegno veramente plebiscitario. Torniamo al fascismo. Il fascismo cercò di inserirsi nelle colonie italiane in America e di strumentalizzarle, senza peraltro conseguire grandi successi. Salvemini disse che, malgrado l’impegno dei gerarchi fascisti, gli italiani negli Stati Uniti d’America potevano essere suddivisi in questo modo: il 5% era fascista, il 10% era antifascista, un 35% era tiepidamente filofascista e il 50% pensava agli affari propri. Certamente gli italiani guardarono al fascismo con un certo interesse, perché intravidero in esso, in modo distorto se vogliamo, in modo sbagliato, una sorta di valorizzazione dell’italianità. Tuttavia, quando nel 1940 Mussolini dichiarò guerra al mondo intero, immediatamente gli italiani d’America se ne staccarono e diedero una risposta riprovevole; anzi, quando, dopo Pearl Harbour, anche gli Stati Uniti entrarono in guerra, gli italiani d’America e i cuggionesi, furono moltissimi, si arruolarono nell’esercito degli Stati Uniti. Cominciava così a realizzarsi una lenta, graduale, progressiva integrazione che non piaceva agli americani, i quali preferivano parlare di assimilazione. Gli emigranti, dicevano, devono diventare americani al 100%; non capivano, e non volevano capire, la particolarità, la specificità etnica degli emigranti, anche di quelli italiani. Una svolta si avrà soltanto negli anni Sessanta con la presidenza Johnson, la guerra del Vietnam, il movimento dei diritti civili, Martin Luther King e tutto il grande movimento americano tendente a recuperare e a valorizzare il ruolo e l’identità delle minoranze etniche. Anche gli italiani, sebbene dal punto di vista politico fossero piuttosto conservatori, beneficiarono di questo nuovo clima, di questo nuovo contesto e, da quel periodo in avanti, anche la società americana, l’opinione pubblica americana non parlò più di assimilazione o di americani al 100%, ma cominciò piano piano a parlare di pluralismo etnico, a maturare un riconoscimento della diversità e dell’identità delle varie etnie che popolavano gli Stati Uniti d’America. Questo è stato l’inizio, il momento del riscatto per i nostri emigranti e da lì è cominciata una progressiva ascesa sociale. Concludo, dandovi alcuni dati a testimonianza di ciò. Oggi i nostri emigranti amano definirsi italo-americani, anzi, ci tengono a definirsi italo-americani, a differenza di quanto avviene per le altre etnie di più antica emigrazione. Questo fatto lo suffragano i vari censimenti federali nei quali gli intervistati in genere rispondono: “sono americano” e non “sono un tedesco-americano” o “uno svedese-americano”. Al contrario, negli ultimi censimenti federali del 1990 e 2000 c’è stato un aumento notevolissimo di emigrati italiani – si tratta, si badi bene, di discendenti di terza o quarta generazione - che alla domanda: “di dove sei?” hanno risposto: “sono italo-americano” e ci tengono a sottolinearlo. Oggi la comunità italiana negli Stati Uniti, dal punto di vista sociale, può essere annoverata tra le classi medio-alte, presenta un altissimo tasso di alfabetizzazione - si parla di un 30% di italo-americani laureati – e dispone di un reddito medio annuale superiore ai 50.000 dollari; oggi parlare di italianità, agli occhi degli americani, significa parlare di talenti, di creatività artistica, di buon gusto, di grande cucina, di grande ristorazione, di un bel cinema, di raffinatezza. Questo, in estrema sintesi, è stato il percorso delle nostre comunità italiane. Volevo finire leggendovi, perché mi pare significativo, un passaggio di Rosa Cavalleri, l’emigrante di cui ci ha parlato prima Oreste Magni. Rosa Cavalleri, proletaria cuggionese, trovatella, esposta, figlia dell’ospedale - come si diceva allora -, che prima di partire lavora in filanda e poi decide di emigrare in America, scrive, ad un certo punto, in “Rosa, vita di un’emigrata italiana”: “Ho ancora un ultimo desiderio, tornare in Italia prima di morire. Ora parlo inglese come un americana e potrei andare dappertutto, anche dove vanno i milionari e la gente alta. La guarderei in faccia la gente alta e gli chiederei tutte le cose che ho sempre voluto sapere. Adessso non avrei più paura di nessuno; sarei orgogliosa di venire dall’America e di parlare inglese. Tornerei a Cuggiono a riveder la mia gente e a parlare con i padroni della filanda; tornerei anche a Castelletto e le suore non mi butterebbero più fuori, ora che vengo dall’America. Parlerei con la superiora e sgriderei tutte le suore, non avrei più paura, non oserebbero farmi del male, perché vengo dall’America. Ecco perché amo l’America: perché mi ha insegnato a non avere più paura”. In queste considerazioni di Rosa Cavalleri sembra esservi un sentimento di rivalsa nei confronti degli antichi padroni e di quella comunità che l’aveva un tempo umiliata ed offesa; ma a ben guardare ed a leggere più attentamente nelle orgogliose parole di Rosa, non c’è questo, non vi è né astio né rancore, né cattivi sentimenti. L’odissea di Rosa, il suo viaggio, la sua permanenza in terra americana, dove ha lavorato, penato e patito sofferenze e umiliazioni, tutta la sua vicenda personale si presenta ai nostri occhi come una storia positiva, vissuta non su un ripiegamento rancoroso, come forse c’era da attendersi, ma nel segno di una crescita e di una maturazione. Rosa in effetti parla sì di un viaggio compiuto in gioventù verso l’America, dell’America vista allora come la terra promessa, da lei come da altri milioni di italiani, ma ci parla anche di un altro viaggio, di un viaggio che l’ha portata ad istruirsi, di una nuova forza che l’ha portata alla conquista di una nuova forza interiore, che ha sviluppato in lei autostima e consapevolezza del proprio valore, un’autostima e una coscienza di sé che l’hanno infine liberata dalle antiche paure e che l’hanno emancipata da una condizione di inferiorità e di minorità psicologica. L’America come metafora di un viaggio verso l’emancipazione, un desiderio che, come quello di Rosa migrante, anima del resto le folle anonime che oggi approdano nel nostro paese. Oggi l’Italia da paese di emigrazione è diventato improvvisamente e inaspettatamente paese di immigrazione, al quale bussano migliaia di diseredati che provengono dal Sud del mondo e dai paesi disastrati dell’Est europeo. Cercano, come hanno cercato i nostri connazionali emigranti, un luogo in cui vivere dignitosamente, cercano un lavoro e un minimo di visibilità e di riconoscimento sociale e qui torna d’attualità il messaggio di Rosa. Rosa ci ha detto come ha imparato a vincere e a superare la paura, il mal sottile dell’inquietudine che si insinua nelle persone di fronte ai fenomeni nuovi che mettono in discussione le nostre certezze e le nostre abitudini; è umano aver paura ed è altrettanto comprensibile un certo irrigidimento quando fatti nuovi e imprevisti irrompono nella nostra vita, ma nostro compito è anche quello di padroneggiare questi stati d’animo e di governare pulsioni negative che possono diventare e rivelarsi distruttive. Non è il caso certo di scivolare in interpretazioni buoniste e sentimentali, ma un dovere si impone: il fenomeno migratorio, che è d’altronde vecchio quanto è vecchia la storia dell’umanità, esige d’essere governato, ma governato non con sciocche strida nativiste e xenofobe, ma con la necessaria intelligenza e con un robusto spirito di civiltà e di razionalità, cominciando magari col rimuovere una certa torpida smemoratezza e sollevare quel velo che ci impedisce di guardare alla nostra storia recente, una storia del resto di cui non abbiamo niente di cui vergognarci perché è stato proprio grazie a questa storia onorata, incomprensibilmente a lungo ignorata e censurata, che l’Italia è diventata un paese moderno, civile e, vogliamo anche pensare, aperto e tollerante. |