Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una finestra sita al primo piano dell’edificio. Parte di essi riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. Altra parte non riusciva nel suo intento poiché veniva bloccata dal personale militare presente in loco e riportata all’interno. |
La motivazione della sentenza emessa dal tribunale di Lecce, contro coloro i quali, nei confronti di persone trattenute nel CPT e perciò sottoposte alla loro autorità o custodia, commisero atti di costrizione illecita, determinati dal solo motivo della violenza, della prevaricazione e dell'umiliazione. Il giudice di Lecce ha ritenuto responsabili di violenza privata, in concorso con quello di lesioni aggravate da sevizie e crudeltà, il direttore, alcuni operatori di un Centro di Permanenza Temporanea e alcuni carabinieri addetti alla vigilanza sul Centro, per avere deriso e malmenato selvaggiamente alcuni immigrati clandestini, ripresi nel Centro dopo un tentativo di fuga, costringendone inoltre alcuni, con violenze inaudite, a ingurgitare pezzi di carne di maiale cruda, nella piena consapevolezza della fede musulmana di quelle persone e in periodo di Ramadan". |
Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una finestra sita al primo piano dell’edificio. Parte di essi riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. Altra parte non riusciva nel suo intento poiché veniva bloccata dal personale militare presente in loco e riportata all’interno.
Le scene successive descrivono un clima di grande concitazione e subbuglio per il gran numero di cittadini stranieri che avevano aderito al progetto di fuga e, soprattutto, per le modalità di repressione adottate dal personale dei Carabinieri distaccato presso il Centro e dagli operatori dipendenti dalla fondazione.
La riproduzione processuale degli episodi oggetto di esame non avviene in questo caso attraverso l’ausilio del personale della polizia giudiziaria o di rappresentanti delle forze dell’ordine presenti sul luogo ove i reati sono stati consumati perché, evidentemente, sono stati gli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine, chiamati a garantire l’ordine pubblico ed il rispetto della legge, a violare l’obbligo, discendente direttamente dalla legge e loro affidato, della tutela dei diritti dell’individuo e della collettività.
Le deposizioni più significative sono state assunte dal Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente probatorio. Sono le dichiarazioni dei cittadini marocchini bloccati al momento della fuga o rintracciati nelle ore e nei giorni successivi.
Una breve considerazione va rivolta alla questione di inutilizzabilità, sollevata dalla Difesa degli imputati carabinieri, relativa ai verbali di incidente probatorio.
Sostiene la Difesa che le persone offese sentite in qualità di testimoni, con tutte le conseguenze sul piano della valutazione della prova, erano suscettibili di sottoposizione ad indagine per fatti connessi a quelli per cui si procede, motivo per cui avrebbero dovuto essere sentiti nel corso dell’incidente probatorio in qualità di persone indagate di reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 210 c.p.p.
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Sentito nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 3 marzo 2003, Ben Slama Lofti, ospite del centro, ha riferito che stanco dei maltrattamenti subiti, decideva, insieme ad altri ospiti, di fuggire dal centro attraverso la finestra di una stanza del primo piano calandosi dal balcone. Riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. ...
I militari lo costringevano a stendersi sul pavimento iniziando così a colpirlo ai piedi. A quel punto Natasha e Luca partecipavano al pestaggio schiaffeggiandolo al volto – “le forze dell’ordine mi hanno steso a terra e hanno incominciato a colpirmi con il bastone ai piedi e mentre stavo a terra cercavo di coprirmi il viso; subito sono arrivati Luca e Natasha e con la mano mi hanno colpito al viso” (pagina 19 verbale incidente probatorio udienza 3.3.03).
Assisteva alla scena Abedhadi Mohamed, anch’egli rintracciato e ricondotto al centro in mattinata.
Assisteva, peraltro, al pestaggio di altri uomini che avevano tentato la fuga.
Portato in infermeria per i primi soccorsi, chiedeva di essere portato in ospedale, ma si provvedeva a trasferirlo solo molto più tardi.
Nella stessa giornata uno dei carabinieri ivi presenti lo costringeva a mangiare carne di maiale. Riferisce il teste “Si mi hanno costretto a mangiare carne di maiale….. Una delle guardie gli ha detto ‘o mangi questa carne di maiale o ti colpisco’ e io l’ho mangiata”.(pagina 34 verbale incidente probatorio udienza 3.3.03).
In ospedale gli veniva prestata assistenza, ma non riusciva a comprendere la conversazione che intercorreva tra i medici e gli operatori che l’avevano accompagnato poiché non parlavano nella sua lingua.
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Salem Mohamed è stato ascoltato all’udienza del 4 marzo 2003 nel corso dell’incidente probatorio.
Ha riferito che nella serata del 21 novembre 2002, insieme agli altri cittadini stranieri ospitati nel C.T.P., riusciva a fuggire dal Centro saltando dal primo piano dell’edificio e riuscendo a superare la recinzione.
Veniva tuttavia rintracciato nel pomeriggio successivo nei pressi della Questura di Lecce dai carabinieri che lo facevano salire in macchina e lo conducevano in una “casa” dove “in una stanza piccola – riferisce – mi hanno chiuso a chiave per mezz’ora”.
Successivamente veniva riportato da due militari al Centro dove veniva accolto da uno schiaffo di Dokaj Paulin. Un militare si avvicinava portando in mano un involucro di carta stagnola ove riusciva a vedere un pezzo di carne cruda.
Questa la diretta descrizione di Salem: “…poi l’ha aperta lui perché stava dentro la carta stagnola, ha tirato una cosa da dentro e mi ha detto ‘guarda questa cosa’ e mi ha detto ‘questa la devi mangiare sennò ti ammazziamo’. Gli ho detto ‘io sono musulmano, non mangio il maiale’. Mi ha colpito con il manganello a questa parte, alla parte destra e alla parte sinistra del piede, delle gambe, mi ha fatto togliere i pantaloni perché ero anche bagnato, c’era il fango e i pantaloni…sono rimasto con i pantaloncini, con la mutanda vestito io. Dopo mi hanno fatto sdraiare sulla spalla, sulla schiena, uno mi ha preso e mi ha bloccato di questa…ha messo il ginocchio sopra la mano, e un altro mi ha bloccato l’altro braccio e quello che teneva la carne in mano si è seduto sopra di me così ed ho cercato di tirare il braccio per bloccare, per chiudere la bocca; mi ha dato un pugno alla mano e poi mi ha colpito e poi mi ha colpito col manganello che mi ha fatto male, ancora non riesco ad aprirlo completamente, e poi ha cercato di aprire, è riuscito ad aprire con la forza la bocca stringendola”.
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Deli Mohamed è stato escusso nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 4 marzo 2003.
Ha riferito di aver tentato la fuga insieme agli altri ospiti del Centro. Riusciva a superare la recinzione e a dileguarsi insieme ad un altro ospite del C.T.P. chiamato Lesmi Habib.
Il mattino seguente veniva rintracciato da Dokaj Paulin accompagnato da due carabinieri in borghese.
Alla vista dell’auto condotta dal Dokaj tentava di fuggire, ma i militari, impugnando una pistola gli intimavano l’ALT. Temendo la reazione armata si fermava. Uno dei carabinieri lo colpiva alla nuca con il calcio della pistola; sopraggiungevano Paolo e l’altro militare che continuavano a picchiarlo.
Stessa sorte toccava al suo compagno Lesmi che veniva picchiato sul viso. I due venivano così ammanettati, caricati sull’auto e riportati al Centro. Venivano percossi anche nel corso del tragitto di ritorno.
Appena giunti al Centro venivano accolti dal Direttore che apriva lo sportello della macchina e schiaffeggiava entrambi, colpendo Deli sul naso. Veniva trascinato sulla terra bagnata fino all’ingresso dell’edificio. All’interno veniva ancora picchiato
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Successivamente un militare in divisa lo costringeva con la forza ad ingoiare carne di maiale cruda deridendolo per la fede musulmana e per il divieto imposto nel periodo del Ramadan.
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Tutto il racconto di Souiden Montassar è lucido e raccapricciante. Questi alcuni passaggi significativi: “… ci hanno bloccato i carabinieri e poi ci hanno portato nel corridoio vicino alla direzione. Dopodiché è arrivato il direttore, mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha sbattuto due volte sul muro la testa di dietro; dopo mi ha girato e mi ha preso dalla parte da dietro e mi ha sbattuto la faccia al muro, dalla parte della sopracciglia qui e mi ha fatto una ferita, una grossa ferita qui alla sopracciglia. … Dopodiché mi ha rigirato e ha preso il manganello dei carabinieri e mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha colpito col manganello sulle labbra, alla bocca, dove mi ha procurato una ferita che è visibile ancora. Poi mi ha colpito due denti superiori. … Dopodiché lui insieme a Luca e Natasha, insieme a don Cesare mi hanno cominciato a colpire sul viso.
… Appena entrato ho visto Mohamed Abedhadi e Paolo e Natasha lo picchiavano. Gli altri stavano messi stesi a terra, c’erano dei carabinieri e i carabinieri quando passavano davano dei calci agli altri.
… c’erano i carabinieri che hanno picchiato gli altri, anzi chiunque che passava di lì, carabinieri o uno che lavorava al Centro davano botte, era un gioco”.
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In questo clima si inserisce la vicenda relativa al cosiddetto “foglio delle firme” che, con metodi ai limiti del raggiro, venne diffuso tra gli ospiti del Centro con la finalità di raccogliere, anche in modo abbastanza approssimativo, l’adesione ad una dichiarazione di dubbia natura e certamente non compresa dai cittadini marocchini trattenuti.
Il foglio, che sembra indirizzato all’Ufficio Immigrazione della Questura di Lecce, datato 21 dicembre 2002, contiene il seguente testo:
“In qualità di Direttore di questo CPTA, comunico che i cittadini sottoelencati chiedono di rimanere presto questa struttura di accoglienza, nonostante che l’autorità giudiziaria abbia stabilito per il loro trasferimento ad altra struttura, in attesa di essere ascoltati dall’Autorità di Polizia.
Gli stessi sono stati informati dal loro legale Avv. Petrelli.
Nello stesso tempo l’attività di mediazione e traduzione è stata condotta da un loro traduttore di fiducia, Makram Nemili, e dal traduttore di questo CTPA Taha Mustafa”.
Il testo è seguito dai nomi dei cittadini marocchini denuncianti e dalle rispettive sottoscrizioni.
Lo stesso foglio è accompagnato da altro foglio riportante le medesime sottoscrizioni e, nella prima parte, una scritta in lingua araba composta di due righi ed una parte cancellata.
In primis, è inverosimile che un testo così lungo nella lingua italiana possa essere tradotto in lingua araba e constare di due soli righi. Inoltre non si comprende quale possa essere stata la finalità del Direttore nel redigere la richiesta in nome e per conto dei denuncianti.
Sorge una serie di dubbi in ordine alla intenzione apparente di chi ritenuto di rivolgere all’Ufficio Immigrazione una richiesta di tal fatta il giorno immediatamente precedente all’espletamento dell’attività di indagine, consistente nell’ascolto dei denuncianti, delegata dal Pubblico Ministero procedente (l’ascolto, infatti, avvenne nella giornata di domenica 22 dicembre 2002).
I dubbi si fanno più folti se si ha riguardo alle dichiarazioni rese dalle persone offese, in qualità di testimoni, in relazione al su riportato “foglio delle firme”.
Quel che appare con certezza è che i cittadini marocchini firmatari non avevano compreso affatto il contenuto del testo che sono stati invitati a sottoscrivere. Del resto la semplice considerazione che i firmatari si sono trovati di fronte ad una traduzione assolutamente non esaustiva sul foglio allegato ed alla “mediazione” dei traduttori Makram e Taha, persone integrate nella struttura organizzativa del C.T.P., già induce a ritenere che la vicenda abbia tratti decisamente oscuri.
Ma la lettura delle dichiarazioni testimoniali offre un quadro sufficientemente preciso della reale finalità dell’iniziativa del direttore.
Così Salem Mohamed riferisce al Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente probatorio: “dieci giorni prima della nostra uscita dal Centro è venuto Mustafà, l’iracheno, verso le 9 e mezzo, le dieci di notte … e ci ha detto: ‘voi dovete ritirare la denuncia perché perdita di tempo per voi, perdete tempo perché qua il direttore è italiano e ha poteri e conosce le persone che contano, ha dei poteri, non ottenete nulla’ e io gli ho detto che noi vogliamo i nostri diritti … E tutti hanno rifiutato di fare la rinuncia alla querela, alla denuncia. Dopo è venuto un’altra volta, due o tre volte e noi abbiamo sempre detto di no. Dopodiché siamo scesi sotto … è arrivato Mustafà e ha chiesto ‘Chi è arrivato al Centro il 24 ottobre?’ e ci ha detto: ‘Voi che siete arrivati il 24 per poter uscire dovete firmare questa carta’, c’era uno che sapeva leggere l’italiano e gli ha detto: ‘Fammela leggere’ e gli ha detto di no, ha rifiutato di darla a lui per farla leggere e gli ha detto: ‘Queste sono cose che non ti riguardano, non la puoi leggere tu’ e poi abbiamo firmato questa carta”.
M o t i v a z i o n e
Con decreto del Giudice dell'udienza preliminare in data 23 gennaio 2004 veniva disposto il giudizio nei confronti di Lodeserto Cesare, Lodeserto Giuseppe, Vieru Natalia, Dokaj Paulin, Gozlugol Husevin, Mara Armando, Sen Ramazan, D’Ambrosio Francesco, Alberga Vito, Casafina Antonio, Ottomano Vito, Coscia Michele, Mele Vito, D’Epiro Alessandro, Blasi Francesco, Di Pierro Mario, Fumarola Giovanni, Roberti Giovanni e Cazzato Anna Catia per rispondere dei reati rispettivamente ascritti in epigrafe. All’udienza del 13 maggio 2004 il Giudice verificava la regolare costituzione delle parti e decideva con ordinanza sulle questioni preliminari sollevate. All’esito dichiarava aperto il dibattimento. All’udienza del 26 ottobre 2004, a causa dello sciopero proclamato dagli operatori addetti alla fonoregistrazione ed alla redazione in forma stenotipica del verbale, su richiesta delle parti e nell’impossibilità di procedere a verbalizzazione riassuntiva avuto riguardo alla particolare complessità dell’istruttoria, veniva disposto in differimento del dibattimento. Alla successiva udienza del 13 dicembre 2004 le parti avanzavano le rispettive richieste di prova che il Giudice ammetteva a norma dell’art. 495 c.p.p.. Veniva espletata l’istruttoria dibattimentale con l’escussione dei testi: · Scalese Maurizio, maresciallo dei carabinieri in servizio presso la sezione di polizia giudiziaria in sede (pg. 39); · Doria Salvatore, maresciallo capo in servizio, all’epoca dei fatti, presso il Comando provinciale dei Carabinieri di Lecce (pg. 53); · Souiden Montassar, persona offesa, con l’ausilio dell’interprete di lingua araba El Boury Sanaa (pg. 112); · Taha Mustafa, con l’ausilio dell’interprete Saida Arfaoui (pg. 132); · Filieri Antonio, maresciallo in servizio presso il Comando provinciale dei carabinieri di Lecce (pg. 258); · Refolo Francesco, medico in servizio, all’epoca dei fatti,presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 271); · Ruggeri Oreste, medico in servizio, all’epoca dei fatti, presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 334); · Turco Luigi, medico in servizio presso l’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce (pg. 354); · Ricci Mario, medico in servizio presso l’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce (pg. 367); · Antonaci Antonio, medico in servizio, all’epoca dei fatti, presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 389). All’udienza del 24 febbraio 2005 l’assenza del teste Pinca, in assenza di altri testimoni, rendeva necessario il rinvio. All’udienza del 14 aprile 2005 venivano sentiti i testi: · Pinca Giuseppe, maggiore dei Carabinieri, all’epoca dei fatti comandante del Nucleo Operativo del Comando Provinciale di Lecce (pg. 12); pag. 1 · Antonaci Antonio, medico in servizio all’epoca dei fatti presso il presidio sanitario del Centro Regina Pacis (pg. 89); · Martina Marcello, Comandante della Stazione Carabinieri di Melendugno (pg. 100); · Dinoia Mario (pg. 145), · Serafino Leonardo (pg. 177), · Parini Mario (pg. 194), · Natale Rinaldo (pg. 210), · Iacobino Gianluca (pg. 229), · Esposito Francesco Ciro (pg. 242), · Zotti Gaetano (pg. 258), tutti carabinieri in servizio presso l’XI Battaglione Puglia distaccati presso il Centro Regina Pacis. Successivamente, all’udienza del 24 maggio 2005 l’imputato Lodeserto Cesare si sottoponeva all’esame (pg. 5). Per tutti gli altri imputati, dei quali era stato chiesto l’esame dal Pubblico Ministero, si era già provveduto alla acquisizione ai sensi dell’art. 513 c.p.p., dei verbali di interrogatorio. Venivano, all’esito, sentiti: · dott. Simonetti Nicola, consulente tecnico nominato dalla Difesa degli imputati Cazzato e Roberti (pg. 114); · Polito Mario, maggiore dei Carabinieri, comandante della Compagnia di Lecce (pg. 139); · Yaco Amiel Daniel, operatore del Centro (pg. 148); · Schifa Vincenzo, agente di Polizia assegnato al servizio di scorta di Lodeserto Cesare (pg. 165); · Doria Luca, agente di Polizia assegnato al servizio di scorta di Lodeserto Cesare (pg. 172). Alla successiva udienza del 6 giugno 2005 proseguiva l’istruttoria dibattimentale con l’esame dei testi: · Mohamed Elshazzlly Mohamed Hamdi, operatore addetto alla cucina del Centro (pg. 4 e 73); · Dell’Aera Oronzo, agente di Polizia assegnato al servizio di scorta di Lodeserto Cesare (pg. 17); · Lauriero Filippo, carabiniere in servizio presso l’XI Battaglione Puglia distaccato presso il Centro Regina Pacis; · Ardito Giuseppe (pg. 43) · Ardito Raffaella (pg. 55). All’udienza del 20 giugno 2005 veniva sentito il teste Addante Michele, carabiniere in servizio presso l’XI Battaglione Puglia distaccato presso il Centro. L’istruttoria si concludeva all’udienza del 4 luglio 2005 con l’esame dei residui testi di Difesa: Castro Giuseppe (pg. 4), Labartino Domenico (pg. 19), Zotti Gaetano (pg. 24) e Petitto Fabio (pg. 33), tutti carabinieri dell’XI Battaglione Puglia distaccati presso il Centro Regina Pacis. A seguito delle dichiarazioni spontanee dell’imputato Ottomano, dichiarata la conclusione dell’istruttoria e l’utilizzabilità degli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento, il Pubblico Ministero rassegnava le proprie conclusioni. La discussione richiedeva più udienze avuto riguardo ai numerosi imputati ed ai rispettivi Difensori. All’esito della camera di consiglio, il Giudice pronunciava dispositivo di sentenza dandone integrale lettura e riservando i motivi. pag. 2 2. Motivi della decisione L’istruttoria dibattimentale ha consentito di accertare la penale responsabilità degli imputati, fatta eccezione per i carabinieri D’Epiro, Blasi e Casafina, in ordine ai fatti di violenza privata e lesioni aggravate, così diversamente qualificati i fatti contestati in rubrica. Si è ritenuta, inoltre, la responsabilità dei medici Cazzato e Roberti per il reato di falso. Non è provata, invece, la condotta di concorso nel falso degli imputati Lodeserto Cesare e Giuseppe. La vicenda, ampiamente descritta nell’articolato capo di imputazione, è stata riproposta minuziosamente nell’anticipazione istruttoria dell’incidente probatorio e ulteriormente approfondita nella complessa attività dibattimentale registrata dai numerosi e voluminosi verbali di udienza. Nella serata del 21 novembre 2002 un gruppo di magrebini trattenuti in attesa di espulsione nel Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di San Foca di Melendugno organizzavano e ponevano in essere una fuga saltando da una finestra sita al primo piano dell’edificio. Parte di essi riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. Altra parte non riusciva nel suo intento poiché veniva bloccata dal personale militare presente in loco e riportata all’interno. Le scene successive descrivono un clima di grande concitazione e subbuglio per il gran numero di cittadini stranieri che avevano aderito al progetto di fuga e, soprattutto, per le modalità di repressione adottate dal personale dei Carabinieri distaccato presso il Centro e dagli operatori dipendenti dalla fondazione. La riproduzione processuale degli episodi oggetto di esame non avviene in questo caso attraverso l’ausilio del personale della polizia giudiziaria o di rappresentanti delle forze dell’ordine presenti sul luogo ove i reati sono stati consumati perché, evidentemente, sono stati gli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine, chiamati a garantire l’ordine pubblico ed il rispetto della legge, a violare l’obbligo, discendente direttamente dalla legge e loro affidato, della tutela dei diritti dell’individuo e della collettività. Le deposizioni più significative sono state assunte dal Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente probatorio. Sono le dichiarazioni dei cittadini marocchini bloccati al momento della fuga o rintracciati nelle ore e nei giorni successivi. Una breve considerazione va rivolta alla questione di inutilizzabilità, sollevata dalla Difesa degli imputati carabinieri, relativa ai verbali di incidente probatorio. Sostiene la Difesa che le persone offese sentite in qualità di testimoni, con tutte le conseguenze sul piano della valutazione della prova, erano suscettibili di sottoposizione ad indagine per fatti connessi a quelli per cui si procede, motivo per cui avrebbero dovuto essere sentiti nel corso dell’incidente probatorio in qualità di persone indagate di reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 210 c.p.p. La questione non è meritevole di accoglimento. Invero, le uniche persone offese per cui vi era stata iscrizione al registro degli indagati, per aver declinato false generalità, sono state effettivamente ascoltate dal Giudice per le indagini preliminari con le modalità previste dal codice di pag. 3 rito per gli indagati di reato connesso o collegato ai sensi dell’art. 210 c.p.p. Deve aggiungersi, peraltro, che le dichiarazioni di Agrebi e Aidi, indagati per il reato di cui all’art. 496 c.p., non sono state tenute in considerazione ai fini della decisione di colpevolezza; infatti, tutte le condotte illecite che, in base all’imputazione, sarebbero state subite da Agrebi e Aidi sono state ritenute insussistenti. La inattendibilità delle rispettive deposizioni discende dalla circostanza della assenza di Dokaj e del direttore nel C.T.P. al momento dei fatti. La documentazione prodotta dai difensori dei predetti imputati fa ritenere che entrambi non si trovassero in Italia, come attestato dai timbri apposti sui rispettivi passaporti. Medesima valutazione di inattendibilità deve essere operata in relazione alla deposizione di Haddaji Mohamed il quale riferisce di non essere riuscito a fuggire. In realtà l’analisi della documentazione prodotta dal Pubblico Ministero attesta non solo che la fuga è stata in effetti posta in essere, ma anche che il cittadino marocchino è stato rintracciato solo in data 24 novembre 2002. La circostanza è incompatibile con quanto riferito dal teste. Tanto premesso, per tutti gli altri testimoni, persone offese, non si comprende quale possa essere il profilo di responsabilità per cui avrebbero dovuto essere indagati, all’inizio o successivamente. In ogni caso, in assenza di qualsivoglia iscrizione al registro degli indagati, deve concludersi per la assoluta regolarità dell’assunzione della testimonianza e, di conseguenza, per la piena utilizzabilità dei contenuti. Superata la questione processuale e ritornando ai fatti oggetto del procedimento sembra opportuno e necessario ripercorrere le deposizioni delle persone offese al fine di ricostruire dettagliatamente gli avvenimenti della notte tra il 21 e il 22 novembre 2002 e dei giorni successivi. Deve premettersi che nella esposizione dei motivi si utilizzeranno talvolta espressioni quali “Regina Pacis” o C.T.P. o Centro per intendere “Centro di permanenza temporanea Regina Pacis” o gli pseudonimi, poiché comunemente utilizzati dai testimoni, “Natasha” per indicare Vieru Natalia, “Luca” per indicare Lodeserto Giuseppe, “Paolo” per indicare Dokaj Paulin o le denominazioni “don Cesare” o “direttore” per indicare Lodeserto Cesare. Il racconto di Ben Slama Lofti Sentito nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 3 marzo 2003, Ben Slama Lofti, ospite del centro, ha riferito che stanco dei maltrattamenti subiti, decideva, insieme ad altri ospiti, di fuggire dal centro attraverso la finestra di una stanza del primo piano calandosi dal balcone. Riusciva a superare la recinzione e a disperdersi nelle campagne circostanti. Rintracciato, tuttavia, nelle prime ore del mattino del giorno seguente (ore 8.30 secondo gli atti ufficiali), veniva ricondotto nel centro dove veniva portato nel corridoio degli uffici e piantonato da due “guardie” – l’interprete precisa che il corrispondente termine in arabo utilizzato dal teste indica in quella lingua la persona appartenente alle forze dell’ordine – che ripetutamente lo colpivano con un manganello. pag. 4 Assistevano alla scena la Vieru, Lodeserto Giuseppe (detto Luca) e don Cesare il quale successivamente si allontanava entrando nel proprio ufficio nello stesso corridoio. I militari lo costringevano a stendersi sul pavimento iniziando così a colpirlo ai piedi. A quel punto Natasha e Luca partecipavano al pestaggio schiaffeggiandolo al volto – “le forze dell’ordine mi hanno steso a terra e hanno incominciato a colpirmi con il bastone ai piedi e mentre stavo a terra cercavo di coprirmi il viso; subito sono arrivati Luca e Natasha e con la mano mi hanno colpito al viso” (pagina 19 verbale incidente probatorio udienza 3.3.03). Assisteva alla scena Abedhadi Mohamed, anch’egli rintracciato e ricondotto al centro in mattinata. Assisteva, peraltro, al pestaggio di altri uomini che avevano tentato la fuga. Portato in infermeria per i primi soccorsi, chiedeva di essere portato in ospedale, ma si provvedeva a trasferirlo solo molto più tardi. Nella stessa giornata uno dei carabinieri ivi presenti lo costringeva a mangiare carne di maiale. Riferisce il teste “Si mi hanno costretto a mangiare carne di maiale….. Una delle guardie gli ha detto ‘o mangi questa carne di maiale o ti colpisco’ e io l’ho mangiata”.(pagina 34 verbale incidente probatorio udienza 3.3.03). In ospedale gli veniva prestata assistenza, ma non riusciva a comprendere la conversazione che intercorreva tra i medici e gli operatori che l’avevano accompagnato poiché non parlavano nella sua lingua. Nel corso dell’esame fornisce differenti indicazioni sulla cadenza temporale degli accadimenti. Nello specifico, modifica gli orari in sede di controesame dell’avv. Pallara riferendo i dettagli temporali in modo più rispondente alla realtà. La differente indicazione non ha evidentemente alcuna incidenza sulla attendibilità del suo racconto né sulla veridicità dei fatti narrati; è pienamente comprensibile lo sfasamento se si considera che si è visto costretto a vagare per tutta la notte, che è stato catturato intorno alle 8.30 del mattino a qualche ora, quindi dal sorgere del sole, ed è stato ripetutamente picchiato, tanto da riportare lesioni consistenti, regolarmente refertate, e abbandonato per ore prima di essere soccorso nei modi più opportuni. Non si può affermare che una persona offesa nel corpo e nell’animo abbia l’accortezza di controllare la cadenza temporale di quanto accade. Il racconto di Salem Mohamed Salem Mohamed è stato ascoltato all’udienza del 4 marzo 2003 nel corso dell’incidente probatorio. Ha riferito che nella serata del 21 novembre 2002, insieme agli altri cittadini stranieri ospitati nel C.T.P., riusciva a fuggire dal Centro saltando dal primo piano dell’edificio e riuscendo a superare la recinzione. Veniva tuttavia rintracciato nel pomeriggio successivo nei pressi della Questura di Lecce dai carabinieri che lo facevano salire in macchina e lo conducevano in una “casa” dove “in una stanza piccola – riferisce – mi hanno chiuso a chiave per mezz’ora”. Successivamente veniva riportato da due militari al Centro dove veniva accolto da uno schiaffo di Dokaj Paulin. Un militare si avvicinava portando in mano un involucro di carta stagnola ove riusciva a vedere un pezzo di carne cruda. pag. 5 Questa la diretta descrizione di Salem: “…poi l’ha aperta lui perché stava dentro la carta stagnola, ha tirato una cosa da dentro e mi ha detto ‘guarda questa cosa’ e mi ha detto ‘questa la devi mangiare sennò ti ammazziamo’. Gli ho detto ‘io sono musulmano, non mangio il maiale’. Mi ha colpito con il manganello a questa parte, alla parte destra e alla parte sinistra del piede, delle gambe, mi ha fatto togliere i pantaloni perché ero anche bagnato, c’era il fango e i pantaloni…sono rimasto con i pantaloncini, con la mutanda vestito io. Dopo mi hanno fatto sdraiare sulla spalla, sulla schiena, uno mi ha preso e mi ha bloccato di questa…ha messo il ginocchio sopra la mano, e un altro mi ha bloccato l’altro braccio e quello che teneva la carne in mano si è seduto sopra di me così ed ho cercato di tirare il braccio per bloccare, per chiudere la bocca; mi ha dato un pugno alla mano e poi mi ha colpito e poi mi ha colpito col manganello che mi ha fatto male, ancora non riesco ad aprirlo completamente, e poi ha cercato di aprire, è riuscito ad aprire con la forza la bocca stringendola”. Alla scena assistevano don Cesare (“è entrato il direttore e mentre ci aveva la mano in tasca così sorrideva, rideva e mi ha detto ‘bene, va bene così’ e ha sputato verso di me, mi ha sputato”) che, tuttavia, non interveniva e la Vieru che gli rivolgeva offese ripetendogli la frase “dove sta Allah che ti salva e ti protegge adesso?”. Dopo la descritta aggressione si appoggiava con la spalla al muro antistante la porta dell’ufficio della direzione sopraggiungevano “Luca” Lodeserto e Gozlugol Husevin che lo percuotevano. Nella tarda serata riusciva a farsi visitare dal medico del Centro che gli somministrava un antidolorifico. Dopo nove giorni veniva nuovamente visitato dal medico e, solo dopo molte insistenze, veniva portato in ospedale dove, tuttavia, non veniva curato per assenza dello specialista ortopedico. Il racconto di Deli Mohamed Deli Mohamed è stato escusso nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 4 marzo 2003. Ha riferito di aver tentato la fuga insieme agli altri ospiti del Centro. Riusciva a superare la recinzione e a dileguarsi insieme ad un altro ospite del C.T.P. chiamato Lesmi Habib. Il mattino seguente veniva rintracciato da Dokaj Paulin accompagnato da due carabinieri in borghese. Alla vista dell’auto condotta dal Dokaj tentava di fuggire, ma i militari, impugnando una pistola gli intimavano l’ALT. Temendo la reazione armata si fermava. Uno dei carabinieri lo colpiva alla nuca con il calcio della pistola; sopraggiungevano Paolo e l’altro militare che continuavano a picchiarlo. Stessa sorte toccava al suo compagno Lesmi che veniva picchiato sul viso. I due venivano così ammanettati, caricati sull’auto e riportati al Centro. Venivano percossi anche nel corso del tragitto di ritorno. Appena giunti al Centro venivano accolti dal Direttore che apriva lo sportello della macchina e schiaffeggiava entrambi, colpendo Deli sul naso. Veniva trascinato sulla terra bagnata fino all’ingresso dell’edificio. All’interno veniva ancora picchiato alla presenza di Don Cesare, Lodeserto Giuseppe e la Vieru. pag. 6 Successivamente un militare in divisa lo costringeva con la forza ad ingoiare carne di maiale cruda deridendolo per la fede musulmana e per il divieto imposto nel periodo del Ramadan. Così Deli descrive l’accaduto: “poi un carabiniere se n’è andato e ha portato un pezzo di carne di maiale, a me mi hanno preso in quattro persone e mi hanno fatto ingoiare la carne di maiale con la forza e ridendo in modo un po’ ridicolo nei confronti della religione e nel mese di decorrenza del Ramadan che era in quel momento, il mese del digiuno musulmano … Era carne cruda, non è cotta. … Mi hanno preso due dai piedi, mi hanno bloccato i piedi, uno mi ha bloccato dal torace e le braccia, un altro mi ha costretto di aprire la bocca con la forza e mi ha infilato il pezzo di carne tenendo anche il manganello in mano. … Prima me l’ha messa vicino la bocca ma rifiutai di ingoiarla e poi mi ha messo il manganello e me l’ha infilata con la forza” (dei militari presenti nel corso dell’incidente probatorio riconosce con certezza i carabinieri D’Epiro, Di Pierro e Fumarola. È incerto sull’immagine di Blasi e non riconosce Alberga Vito). Tutta la scena si svolgeva dinanzi al Direttore, a Dokaj, Luca e Natasha i quali, non solo rimanevano inerti dinanzi alle violenze perpetrate, ma ridevano. Rimaneva nel corridoio degli uffici ancora per tre ore e subiva le percosse di Luca e Natasha. Solo don Cesare non proseguiva nelle violenze e gli dava una bottiglia di acqua. Solo due giorni dopo veniva visitato dal medico del Centro il quale gli somministrava un farmaco non meglio precisato. Il racconto di Benshine Mohamed Benshine Mohamed è stato escusso all’udienza del 19 marzo 2003 nel corso dell’incidente probatorio. Ha riferito di essere fuggito dal Centro insieme agli altri ospiti del Centro ed, in particolare, in compagnia di Louro Anis. Le modalità di fuga sono simili a quelle riferite dagli altri testi: riferisce di aver scavalcato il balcone del primo piano e di essere saltato sulla vettura parcheggiata sotto il balcone per poi proseguire superando il recinto e dileguarsi. Nel salto, al contrario del suo compagno, non riportava alcuna lesione. Nonostante il riuscito tentativo di fuga, veniva, insieme al Louro, rintracciato nella serata successiva intorno alle ore 21.00. Riportato al centro, riceveva all’arrivo un schiaffo da parte di don Cesare Lodeserto. Sopraggiungevano Vieru, Dokaj, Sen Ramazan e Mara Armando. Natasha lo colpiva con uno sputo, mentre Dokaj gli strappava i vestiti. Al pestaggio si univano i carabinieri D’Ambrosio Francesco e Ottomano Vito. L’identificazione certa deriva dal riconoscimento effettuato in sede di incidente probatorio. Benshine è sicuro nel riconoscere in D’Ambrosio il militare che l’aveva costretto ad ingoiare carne di maiale e in Ottomano colui che l’aveva ripetutamente picchiato. All’esito del pestaggio veniva lasciato nel corridoio, senza abiti, ammanettato con numerose ferite e lividi sul volto, sulle gambe e sulla schiena. pag. 7 Solo il giorno successivo veniva condotto dal medico del centro per le medicazioni, senza, tuttavia, spiegargli come si era provocato le lesioni. Il racconto di Louro Anis Louro Anis è stato escusso nel corso dell’udienza di incidente probatorio del 19 marzo 2003. Ha riferito di essere fuggito dal centro insieme a Benshine Mohamed con le modalità riferite da quest’ultimo e che lanciandosi dal primo piano riportava una slogatura al piede destro. Nella serata del 22 novembre (alle ore 21 secondo gli atti ufficiali) veniva rintracciato insieme al Benshine dai militari in borghese. Ricondotto nel centro, veniva picchiato alle gambe da due carabinieri in divisa armati di un manganello; riferisce “poi mi hanno tirato per il collo” mentre un altro militare assisteva alla scena ridendo. Entrava in scena don Cesare che, prendendolo per il cappuccio, lo spingeva verso il muro. Il carabiniere D’Ambrosio (riconoscimento effettuato con sicurezza nel corso dell’incidente probatorio) si allontanava verso la cucina e tornava con due pezzi di carne cruda che lo costringeva a ingoiare usando il manganello (“ha preso il pezzo di carne di maiale e mi ha messo il braccio sotto al mento e mi ha spinto in modo di alzare la testa e mi ha infilato la carne di maiale in bocca. Poi ha preso il manganello che lo teneva lungo la gamba, io ho cercato di fare resistenza, di non ingoiare la cosa e con il manganello mi ha spinto il pezzo di carne in bocca. … La bocca mi faceva male, soprattutto questa parte e i denti, i denti mi facevano male anche da prima e quando mi hanno spinto la carne così mi hanno fatto ancora più male”) mentre Ottomano lo picchiava con un calcio alla schiena (“l’altro carabiniere camminava così, passava davanti a me, si è girato e mi ha dato un colpo in girata coi piedi sulla schiena, sono caduto per terra e l’altro mi ha preso e mi ha sollevato e mi ha messo in piedi”). Assistevano alla scena anche i carabinieri Coscia e Mele i quali, pur non picchiandolo, tuttavia non intervenivano in alcun modo. Alla scena era presente anche Sen Ramazan ed un altro arabo (“l’egiziano”) di nome Mohamed che forniva la carne di maiale al D’Ambrosio. Condotto dal medico del Centro, gli chiedeva di essere portato in ospedale, ricevendo, tuttavia, un netto rifiuto. Il racconto di Souiden Montassar Souiden Montassar è stato escusso nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 19 marzo 2003. Ha raccontato di essersi lanciato dal primo piano del Centro, ma di essere stato subito intercettato e bloccato dai Carabinieri che lo riconducevano all’interno del corridoio degli uffici. Lì don Cesare lo prendeva per i capelli sbattendogli ripetutamente la testa contro il muro. Continuava a picchiarlo con un manganello dei carabinieri colpendolo sulla bocca e rompendogli i denti. Si univano al pestaggio Luca e Natasha colpendolo sul viso e sulle gambe. Dopo l’ennesimo colpo sul viso da parte di don Cesare sveniva dal dolore. pag. 8 Assistevano alla scena Jdidi Faker, altri connazionali indicati con i nomi di Sami e Ridha e Abedhadi Mohamed, il cui racconto coincide con quello di Souiden. Assisteva alle percosse da parte di Dokaj, Vieru e dei militari ai danni degli altri ospiti catturati che giacevano nel corridoio. Tutto il racconto di Souiden Montassar è lucido e raccapricciante. Questi alcuni passaggi significativi: “… ci hanno bloccato i carabinieri e poi ci hanno portato nel corridoio vicino alla direzione. Dopodiché è arrivato il direttore, mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha sbattuto due volte sul muro la testa di dietro; dopo mi ha girato e mi ha preso dalla parte da dietro e mi ha sbattuto la faccia al muro, dalla parte della sopracciglia qui e mi ha fatto una ferita, una grossa ferita qui alla sopracciglia. … Dopodiché mi ha rigirato e ha preso il manganello dei carabinieri e mi ha preso dal ciuffo dei capelli davanti e mi ha colpito col manganello sulle labbra, alla bocca, dove mi ha procurato una ferita che è visibile ancora. Poi mi ha colpito due denti superiori. … Dopodiché lui insieme a Luca e Natasha, insieme a don Cesare mi hanno cominciato a colpire sul viso. … Appena entrato ho visto Mohamed Abedhadi e Paolo e Natasha lo picchiavano. Gli altri stavano messi stesi a terra, c’erano dei carabinieri e i carabinieri quando passavano davano dei calci agli altri. … c’erano i carabinieri che hanno picchiato gli altri, anzi chiunque che passava di lì, carabinieri o uno che lavorava al Centro davano botte, era un gioco”. Dopo l’intervento del medico del centro veniva disposto il ricovero in ospedale dove, parlando in francese, spiegava al medico di guardia quanto gli era accaduto. Durante la notte, per paura di essere riportato nel Centro, fuggiva dal nosocomio e riusciva a raggiungere la stazione ferroviaria dove saliva a bordo del treno diretto a Bari. La fuga cessava poiché veniva riconosciuto dal personale della Polizia ferroviaria e condotto presso gli uffici della Questura di Bari dove nella tarda serata del 22 novembre veniva ripreso dal Dokaj accompagnato dal cuoco del Centro, tale Mohamed. Ricondotto al Regina Pacis alcuni carabinieri continuavano a picchiarlo. Stesse violenze erano perpetrate da Luca (Lodeserto Giuseppe). La scena si consumava nel corridoio degli uffici dinanzi alla stanza del Direttore il quale assisteva alle percosse senza, tuttavia, intervenire. Il racconto fornito nel corso dell’incidente probatorio viene approfondito e puntualizzato in sede dibattimentale all’udienza del 13 dicembre 2004. In quella circostanza riferisce di essere stato condotto in ospedale nella notte della fuga, ove gli veniva somministrata una medicazione con punti di sutura sul sopracciglio, sulla bocca e sul mento. Non ricorda con esattezza gli orari, ma precisa anche di aver perso conoscenza. Era accompagnato da due operatori del Centro; ricorda solo il nome di Ibrahim, ma non dell’altro uomo. Ha riferito di aver detto al medico del Pronto Soccorso di chiamarsi Montassar Souiden; riferisce anche di aver scritto il nome su foglietto, poiché era difficile per il medico la comprensione del nome arabo, non essendo munito del tesserino di riconoscimento in quel momento. pag. 9 Riferisce che durante la notte fuggiva dall’ospedale per recarsi a Bari dove, tuttavia, veniva riconosciuto e catturato. Il racconto di Abedhadi Mohamed Abedhadi Mohamed è stato sentito nel corso dell’incidente probatorio all’udienza del 19 marzo 2003. Anch’egli aveva deciso nella notte del 22 novembre 2002 di tentare la fuga dal C.T.P., ma, dopo aver superato con un salto il balcone del primo piano dell’edificio, veniva bloccato da un militare il quale lo colpiva alle gambe. Sopraggiungevano Natasha e Paolo; la prima lo colpiva con un calcio allo stomaco. Veniva poi trascinato nel corridoio degli uffici dove il pestaggio proseguiva. In particolare ricorda i colpi della Vieru sul naso e sotto l’occhio (“Mi ha colpito Natasha nell’atrio, nel cortile davanti, mi ha colpito nello stomaco, con il piede mi ha dato un calcio allo stomaco. Dopo mi hanno preso Natasha e Paolo e mi hanno portato vicino all’ufficio nel corridoio e mentre mi portavano verso il corridoio hanno continuato anche a picchiarmi sia Paolo che Natasha”). Il racconto prosegue con altri dettagli dell’episodio che coinvolgeva anche altri connazionali dell’Abedhadi: egli ricorda la presenza nel corridoio di due ospiti tunisini Gedidi Fracher e Ridha – non ricorda il nome completo – i quali venivano picchiati dai carabinieri e dallo stesso Direttore con un manganello. Anche Abedhadi riferisce di essere stato costretto con violenza dal carabiniere D’Ambrosio (riconosciuto con certezza in sede di incidente probatorio) a mangiare carne di maiale cruda. Si riporta di seguito il passaggio del verbale di udienza: “è entrato in cucina, ha portato un piattino dove c’era della carne … Dopo si è seduto sulla pancia mi ha aperto la bocca stringendo con le mani sulla guancia poi mi ha messo un pezzetto di carne in bocca e poi con il manganello ha spinto in modo che la ingoiavo”. Alla scena era presente la Vieru che incitava l’azione del carabiniere deridendo l’aggredito con parole di scherno per la sua religione musulmana. Nonostante le gravi violenze subite veniva lasciato sul pavimento del corridoio per molte ore e riceveva solo due interventi del medico di turno che gli somministrava un farmaco antidolorifico. Attendibilità delle persone offese I racconti sopra riportati offrono uno spaccato della notte e dei giorni successivi alla fuga intrapresa dagli ospiti del centro e lasciano trasparire con evidenza l’orrore e la violenza che si sono scatenati in quei momenti così concitati. Le scene descritte, attutite nella loro gravità dal tempo trascorso e dalla difficoltà di comprensione e di espressione delle persone straniere sentite, offrono, in ogni caso, un’immagine nitida del clima di violenza e prevaricazione da parte di soggetti che, pur dovendo fronteggiare una situazione improvvisa di emergenza, hanno comunque tenuto comportamenti non solo offensivi e violenti nei confronti di persone inermi, ma anche altamente lesivi della dignità umana, esclusivamente punitivi e sorretti da motivazioni abiette e del tutto futili e, sicuramente, scollegati rispetto alla finalità propria dell’intervento di operatori e militari che avrebbero dovuto limitarsi ad impedire la fuga, finalità perseguibile semplicemente riportando i fuggitivi nel C.T.P. senza adottare le sevizie e le violenze in effetti poste in essere. pag. 10 Il racconto drammatico delle persone ascoltate, fatta eccezione per le deposizioni dei testi Aidi, Haddaji e Agrebi per i motivi già indicati, appare sicuramente attendibile. Occorre premettere preliminarmente, per quanto attiene alle dichiarazioni testimoniali delle persone offese, che non si riscontra normativamente alcuna incompatibilità delle stesse ad assumere l’ufficio di testimone, pertanto il valore probatorio della deposizione è elevato. Le ipotesi di incompatibilità tassativamente previste da codice di rito attengono tutte a posizioni soggettive evidentemente portatrici di un interesse a nascondere la verità dei fatti, più che ad affermarla, poiché affermarla potrebbe comportare un peggioramento della propria posizione. E’ chiaro che l’interesse a mentire contrasta con la necessaria posizione di terzietà e di fides che è tipica del teste; ma nell’ipotesi qui considerata, le parti offese sono portatrici di un unico interesse: la punizione dell’autore del fatto verificatosi a suo danno; strumentale, pertanto, è l’interesse a riferire la verità dei fatti, sì da perseguire l’intento di giustizia. Del resto la giurisprudenza, più volte intervenuta sul punto, ammette ampiamente la possibilità di fondare il giudizio di responsabilità penale sulla deposizione della parte lesa, talvolta anche in assenza di altre fonti di prova. E’ altrettanto chiaro, tuttavia, che, atteso il personale coinvolgimento nella vicenda delle vittime, la valutazione dei contenuti delle deposizioni deve essere attenta e prudente, nel senso che il vaglio del giudicante deve sicuramente avere riguardo ai generali criteri di verifica tipici delle dichiarazioni testimoniali, ma, in più, deve spingersi su un piano di rigore maggiore accertando la presenza di riscontri intrinseci che offrano alle deposizioni un elevato grado di verosimiglianza e, quindi, di credibilità oggettiva e soggettiva. Le persone offese in questo procedimento hanno fornito un resoconto dello svolgimento dei fatti molto dettagliato, privo di contraddizioni e illogicità, sì da conferire oggettivamente credibilità al suo contenuto. Credibilità intrinseca che comunque ha ricevuto conferma e maggiore valenza probatoria anche attraverso ulteriori riscontri forniti da altre fonti di prova. Le difese hanno sottolineato che i racconti delle vittime non possono essere ritenuti attendibili poiché in sede di esame hanno notevolmente infarcito la versione già fornita all’atto della denuncia. In realtà, pur senza considerare che al di là della enunciazione della questione alcuna contestazione ai sensi dell’art. 500 c.p.p. è stata mai effettuata in sede di esame, gli ascolti effettuati nel corso dell’incidente probatorio sono stati le uniche occasioni per i cittadini marocchini oggi persone offese di spiegare e chiarire tutti i passaggi della vicenda ed i particolari degli episodi dei quali sono stati vittime. Lo svolgimento dell’esame al cospetto dell’autorità giudiziaria, con l’ausilio alla memoria delle domande rivolte dal Pubblico Ministero e dai difensori, la presenza di un interprete imparziale nominato dal Tribunale sono evidentemente garanzia della corretta assunzione di informazioni, oltre che le uniche modalità adeguate al fine di consentire ad una persona che non comprende la lingua italiana, finalmente estrapolata da una realtà restrittiva, quale è quella del trattenimento in un centro di permanenza temporanea, e libera dai condizionamenti e pag. 11 dalle più o meno velate minacce da parte degli operatori del centro di spiegare compiutamente quanto accaduto a suo danno. È emerso con chiarezza nel corso di tutto il dibattimento che le persone ospiti nel centro subivano un generale stato di soggezione nei riguardi dell’autorità rappresentata dalla figura del direttore e di coloro, militari e operatori, ai quali erano demandati poteri di controllo e vigilanza. Tutto ciò pur senza avere riguardo alla condizione, sicuramente non agevole e umanamente dignitosa, nella quale versavano le persone trattenute. Essi, colpiti da un provvedimento di espulsione, erano senza dubbio immigrati clandestini introdottisi illegalmente nel territorio dello Stato, ma, fino a prova contraria, non per ciò solo delinquenti pericolosi da arginare con azioni violente o da ritenere sicuramente mendaci. Né può sollevarsi la generica obiezione, peraltro tipica dei procedimenti che vedono vittime soggetti stranieri privi di permesso di soggiorno, che le persone offese avessero interesse a mentire in funzione della finalità di rimanere sul territorio italiano anche a costo di ordire un macchinoso disegno collettivo calunnioso. Sono il numero cospicuo di deposizioni, la concordanza, pur nella totale autonomia e diversità, dei racconti, l’evidente autenticità delle versioni dei fatti fornite a smentire con forza la enunciata obiezione. E, tuttavia, quel che rileva, al fine di valutare le rispettive dichiarazioni, con particolare riguardo alla sottolineata discordanza con quanto esposto in denuncia, è la condizione personale sul piano soggettivo, genericamente disagevole, ed oggettivo, sicuramente concitata e ostile, che può averli indotti ad una querela sommaria e poco approfondita, confidando, evidentemente, nella possibilità di chiarire successivamente, anche attraverso l’ausilio della difesa tecnica, i dettagli delle violenze subite. Alcune persone offese hanno riferito nel corso dell’esame di essere stati oggetto di pressioni di vario genere sia per desistere dall’azione che per modificare o edulcorare la reale versione dei fatti. Tra questi Benshine Mohamed, Delhi Mohamed e Louro Anis parlano chiaramente di trattamento di favore loro riservato al fine di indurli a rimettere la querela consistito in fornitura più frequente di schede telefoniche e sigarette, talvolta con richieste esplicite, talaltra con velati e minacciosi riferimenti alla conseguente impossibilità di lasciare il centro per lungo tempo. In questo clima si inserisce la vicenda relativa al cosiddetto “foglio delle firme” che, con metodi ai limiti del raggiro, venne diffuso tra gli ospiti del Centro con la finalità di raccogliere, anche in modo abbastanza approssimativo, l’adesione ad una dichiarazione di dubbia natura e certamente non compresa dai cittadini marocchini trattenuti. Il foglio, che sembra indirizzato all’Ufficio Immigrazione della Questura di Lecce, datato 21 dicembre 2002, contiene il seguente testo: “In qualità di Direttore di questo CPTA, comunico che i cittadini sottoelencati chiedono di rimanere presto questa struttura di accoglienza, nonostante che l’autorità giudiziaria abbia stabilito per il loro trasferimento ad altra struttura, in attesa di essere ascoltati dall’Autorità di Polizia. Gli stessi sono stati informati dal loro legale Avv. Petrelli. pag. 12 Nello stesso tempo l’attività di mediazione e traduzione è stata condotta da un loro traduttore di fiducia, Makram Nemili, e dal traduttore di questo CTPA Taha Mustafa”. Il testo è seguito dai nomi dei cittadini marocchini denuncianti e dalle rispettive sottoscrizioni. Lo stesso foglio è accompagnato da altro foglio riportante le medesime sottoscrizioni e, nella prima parte, una scritta in lingua araba composta di due righi ed una parte cancellata. In primis, è inverosimile che un testo così lungo nella lingua italiana possa essere tradotto in lingua araba e constare di due soli righi. Inoltre non si comprende quale possa essere stata la finalità del Direttore nel redigere la richiesta in nome e per conto dei denuncianti. Sorge una serie di dubbi in ordine alla intenzione apparente di chi ritenuto di rivolgere all’Ufficio Immigrazione una richiesta di tal fatta il giorno immediatamente precedente all’espletamento dell’attività di indagine, consistente nell’ascolto dei denuncianti, delegata dal Pubblico Ministero procedente (l’ascolto, infatti, avvenne nella giornata di domenica 22 dicembre 2002). I dubbi si fanno più folti se si ha riguardo alle dichiarazioni rese dalle persone offese, in qualità di testimoni, in relazione al su riportato “foglio delle firme”. Quel che appare con certezza è che i cittadini marocchini firmatari non avevano compreso affatto il contenuto del testo che sono stati invitati a sottoscrivere. Del resto la semplice considerazione che i firmatari si sono trovati di fronte ad una traduzione assolutamente non esaustiva sul foglio allegato ed alla “mediazione” dei traduttori Makram e Taha, persone integrate nella struttura organizzativa del C.T.P., già induce a ritenere che la vicenda abbia tratti decisamente oscuri. Ma la lettura delle dichiarazioni testimoniali offre un quadro sufficientemente preciso della reale finalità dell’iniziativa del direttore. Così Salem Mohamed riferisce al Giudice per le indagini preliminari nel corso dell’incidente probatorio: “dieci giorni prima della nostra uscita dal Centro è venuto Mustafà, l’iracheno, verso le 9 e mezzo, le dieci di notte … e ci ha detto: ‘voi dovete ritirare la denuncia perché perdita di tempo per voi, perdete tempo perché qua il direttore è italiano e ha poteri e conosce le persone che contano, ha dei poteri, non ottenete nulla’ e io gli ho detto che noi vogliamo i nostri diritti … E tutti hanno rifiutato di fare la rinuncia alla querela, alla denuncia. Dopo è venuto un’altra volta, due o tre volte e noi abbiamo sempre detto di no. Dopodiché siamo scesi sotto … è arrivato Mustafà e ha chiesto ‘Chi è arrivato al Centro il 24 ottobre?’ e ci ha detto: ‘Voi che siete arrivati il 24 per poter uscire dovete firmare questa carta’, c’era uno che sapeva leggere l’italiano e gli ha detto: ‘Fammela leggere’ e gli ha detto di no, ha rifiutato di darla a lui per farla leggere e gli ha detto: ‘Queste sono cose che non ti riguardano, non la puoi leggere tu’ e poi abbiamo firmato questa carta”. Già la lettura di questa dichiarazione lascia chiaramente intendere che non fosse affatto chiaro ai firmatari – e sicuramente a Salem – il contenuto di ciò che stavano sottoscrivendo, oltre che l’attività di “mediazione” non fosse certo chiarificatrice sul punto. Le altre dichiarazioni rappresentano la medesima situazione di confusione e di alterata rappresentazione della realtà. pag. 13 Benshine Mohamed racconta di aver firmato il foglio per poter lasciare il C.T.P. Gli era stato spiegato, riferisce, che l’unico modo per lasciare il Centro consisteva nel apporre la propria firma. Medesima spiegazione gli veniva fornita, in tono più minaccioso, da don Cesare che, addirittura, gli aveva intimato di rimettere la querela se non avesse voluto restare ristretto nel centro per mesi. Deli Mohamed, dopo aver raccontato nel corso della sua deposizione che aveva subito esplicite pressioni da parte del direttore che gli chiedeva di rinunciare all’azione penale regalandogli nell’occasione sigarette e schede telefoniche, affronta il tema del “foglio delle firme” chiarendo che Mustafà – verosimilmente Taha Mustafà – gli aveva chiesto di sottoscrivere il foglio in cambio della promessa di lasciare il C.T.P.. Dello stesso tenore le dichiarazioni di Souiden Montassar: anche quest’ultimo aveva compreso che la sottoscrizione comportasse la possibilità di lasciare il Centro. Aggiunge, inoltre, di aver ricevuto da don Cesare la richiesta di non essere coinvolto nella denuncia. Queste le parole di Souiden: “E’ venuto il Direttore da noi sopra e ha chiamato la gente e gli ha detto: ‘io non vi ha colpito, i Carabinieri sono che vi hanno colpito! Se volete fare la denuncia fatela ai Carabinieri’, sono entrato io e gli ho detto: ‘questa chi me l’ha procurata?’ e ha continuato a parlare con uno che parlava l’italiano là e gli ha detto di comunicarlo, io la mando anche ad un medico privato alla mia spesa e gli aggiusto anche tutti i denti. Questo è successo”. Louro Anis ha riferito di conoscere il “foglio” che gli è stato mostrato nel corso dell’esame chiarendo che non aveva voluto sottoscriverlo nel dicembre 2002 poiché non era sicuro del contenuto del testo e nel timore che comportasse una rinuncia all’azione penale intrapresa con la denuncia. È lo stesso Taha Mustafà a confermare nel corso della sua deposizione in dibattimento la versione fornita dalle persone offese. Egli chiarisce che era stato detto ai firmatari che se avessero apposto la propria sottoscrizione avrebbero potuto lasciare il Centro. Ne è certo poiché era stato incaricato di far circolare il foglio tra gli ospiti denuncianti. Dunque, è assolutamente evidente che era stato ordito un raggiro, o almeno un’opera tesa a confondere le idee, al fine di indurre una errata rappresentazione della realtà in modo da convincere le persone lese a desistere da qualsiasi intento punitivo al fine di evitare la prosecuzione delle indagini. È chiaro che la situazione di confusione generalizzata non poteva che produrre l’effetto di paralizzare la volontà dei cittadini stranieri che non solo non hanno reso una querela dettagliata, ma hanno unanimemente manifestato la volontà di rimettere le rispettive querele al momento in cui nel corso della domenica 22 dicembre 2002 sono stati sentiti dalla polizia giudiziaria delegata al fine di assumere le informazioni ai sensi dell’art. 351 c.p.p.. Pertanto, il clima di generale intimidazione non poteva agevolare il corretto esercizio del diritto di querela che, invece, risultava ingabbiato in maglie strette con la conseguenza che le prime esposizioni dei fatti sono state rese in modo stringato e appena accennato. Tanto premesso, l’attendibilità intrinseca delle deposizioni è desumibile dagli stessi racconti delle persone offese, non pag. 14 inficiati nella loro logicità dal vaglio dell’esame incrociato cui sono stati sottoposti. Ci si riferisce agli elementi di dubbio introdotti dalle difese degli imputati nel corso del controesame e ribaditi in sede di discussione. Il principio che le difese hanno voluto far emergere consiste nella semplice teoria secondo cui se alcuni degli imputati non erano presenti al momento dei fatti, come riferiti, evidentemente i fatti medesimi non si sono verificati, poiché l’intero corpo di alcune deposizioni si regge su presupposti di fatto non rispondenti al vero. In realtà la sottolineata falsità del presupposto non si riscontra dall’attenta lettura delle dichiarazioni, unitamente agli altri elementi di prova. Con riferimento alla deposizione di Ben Slama Lofti si è sostenuto che la dichiarazione non potesse essere attendibile nella parte in cui il teste riferisce di essere stato percosso da Vieru Natalia poiché quest’ultima alle ore 11.30 del 22 novembre 2002 si è presentata presso gli uffici della Procura della Repubblica di Lecce per essere sentita, nell’ambito di altro procedimento, dal Pubblico Ministero dott. Tramis. In realtà, non si rinviene alcuna incongruenza tra il dato oggettivo della presenza negli uffici della Procura della Vieru e la riferita presenza della stessa presso il C.T.P. all’ora del pestaggio subito dal Ben Slama Lofti. Risulta, infatti, dagli atti redatti dai militari impegnati nel rintracciare i fuggitivi, che il cittadino marocchino Ben Slama veniva riportato al Regina Pacis alle ore 8.30 del 22 novembre. Il teste riferisce che le violenze a suo danno hanno avuto inizio già al momento del rientro nel centro – l’apparente incongruenza in ordine agli orari riferiti è già stata chiarita nella parte della motivazione dedicata al racconto di Ben Slama – e si sono protratte per un tempo non specificato. È altamente verosimile, pertanto, che le violenze perpetrate dalla Vieru, unitamente ai militari, a Lodeserto Giuseppe e Lodeserto Cesare, si siano consumate dall’ora del rientro per un tempo di una o due ore al massimo. L’affermazione è confortata dalla annotazione del dott. Antonaci, medico di turno nel centro nella mattinata del 22 novembre, nel registro degli interventi sanitari dal quale si desume che già prima delle ore 12.00 il medico aveva visitato Ben Slama disponendo che fossero effettuati esami radiografici e visita ortopedica. Dal racconto del teste si comprende senza dubbio che l’intervento del medico è stato successivo alle percosse subite. Dunque, è verosimile e logico ritenere che la Vieru almeno sino alle ore 10.30 del mattino del 22 novembre si trovasse all’interno del C.T.P. dal quale si è sicuramente allontanata per essere alle ore 11.30 presso il Palazzo di Giustizia, avuto riguardo alla distanza di pochi chilometri intercorrente tra la località di San Foca e la città di Lecce. All’inconsistenza dell’alibi – nel senso della perfetta conciliabilità dell’impegno in Procura con la permanenza nel centro nelle prime ore del mattino – fornito dalla Vieru si uniscono le dichiarazioni testimoniali di Deli Mohamed e di Khaifa Kamel, i quali confermano la versione dei fatti fornita da Ben Slama. Khaifa Kamel è stato ascoltato all’udienza del 3 marzo 2003 nel corso dell’incidente probatorio. pag. 15 Ha riferito di non aver tentato la fuga dal centro nella serata del 21 novembre 2002 poiché era ammalato per cui era stato costretto a letto. Si era accorto, tuttavia, che era in corso una fuga per il trambusto e i colpi d’arma da fuoco che si udivano. Dopo circa un’ora tutti gli ospiti venivano portati nella sala cinema al fine di verificare le effettive presenze e individuare i nomi dei fuggitivi. Un militare lo costringeva a scendere nonostante non fosse vestito percuotendolo. Nell’occasione aveva modo di assistere all’aggressione subita da Camissa Amid, da Ben Slama Lofti e da Souiden Montassar. Mentre scendeva nella sala cinema si accorgeva di persone ferite, sanguinanti. Vedeva anche don Cesare con un manganello in mano. Analoga ipotesi di dubbio è stata introdotta dalla Difesa con riferimento alla deposizione di Benshine Mohamed. Come si è già detto, egli riferisce che al suo arrivo nel centro era presente Dokaj Paulin che, peraltro, gli aveva strappato i vestiti di dosso. Risulta documentalmente che Dokaj alle ore 23 della stessa sera si trovava nella città di Bari per recuperare Souiden Montassar fermato dalla Polizia ferroviaria. Le difese hanno sostenuto la inverosimiglianza della versione del Benshine poiché, a loro dire, Dokaj non poteva essere contemporaneamente in due luoghi diversi. In realtà si ritiene che il racconto del teste sia non solo attendibile, ma perfettamente compatibile con gli orari risultanti dagli atti. In un momento così frenetico in cui militari e operatori si muovevano così rapidamente entrando e uscendo dalla struttura continuamente al fine di rintracciare i fuggitivi, non appare affatto inverosimile che Dokaj alle ore 21 fosse nel centro di San Foca e dopo due ore, alle 23.00 fosse a Bari, considerando una distanza di circa 150 km intercorrenti tra Bari e San Foca, percorribili, anche ad una velocità media al di sotto dei limiti consentiti di 90 Kmh, in meno di due ore. In proposito, anche la dichiarazione di Mohamed Elshazzlly, richiesta in sede di prova dalla Difesa per avvalorare l’ipotesi di incompatibilità degli orari, non ha fornito elementi utili al tentativo difensivo poiché il teste proprio con riferimento agli orari è stato particolarmente confuso e incerto. Dunque, anche la circostanza oggettiva della presenza del Dokaj a Bari non vale, per i motivi esposti, ad inficiare la credibilità della deposizione di Benshine. Anche con riferimento al racconto di Louro Anis la Difesa di Lodeserto Cesare ha sollevato il dubbio della incompatibilità tra quanto dichiarato dal teste e la realtà oggettiva che vedeva don Cesare impegnato a Trepuzzi, nella sede dell’ex Frantoio D’Agostino, quale relatore nell’ambito del convegno intitolato “Immigrati e Comunità Cristiana: Regina Pacis” programmato per le ore 18.00 del 22 novembre 2002. Del resto, anche il tentativo della Difesa di minare la compatibilità temporale e, dunque, l’attendibilità del Louro è stato infruttuoso. Invero, i testi Schifa e Dell’Aera, agenti di Polizia assegnati al servizio di scorta a don Cesare Lodeserto, hanno reso in proposito dichiarazioni contrastanti. Il primo, molto più credibile del secondo, ha riferito di aver accompagnato il sacerdote a Trepuzzi per il convegno pag. 16 precisando, tuttavia, di non essere in grado di ricordare con certezza la scansione temporale degli avvenimenti del pomeriggio dal momento che erano passati quasi tre anni dall’episodio, che non era stata redatta alcuna relazione né fogli di servizio e che spesso effettuava il servizio di scorta. Ha saputo, comunque, riferire che il turno si protraeva sicuramente dalle ore 17.00 alle 23.00, che era andato all’inizio del turno a prelevare il Lodeserto dal Centro e che l’aveva accompagnato a Trepuzzi dove aveva atteso, insieme alla scorta, per almeno un’ora per poi fare ritorno a San Foca. Ha chiarito che il tempo di percorrenza dal Centro a Trepuzzi si attestava in circa trenta minuti e che probabilmente in quella serata tutti gli uomini di scorta erano rientrati prima della fine del turno in Questura, avendo terminato il servizio. Il teste Dell’Aere, in modo abbastanza inverosimile avuto riguardo al lungo tempo trascorso, ha ricordato orari scanditi al minuto e che il convegno era iniziato intorno alle ore 20.00 e che, pertanto aveva riaccompagnato don Cesare presso il Centro intorno alle ore 22.30. Anche Dell’Aere ha tenuto a precisare che svolgeva con molta frequenza il servizio di scorta al sacerdote e che, pur non redigendo in quella occasione alcun rapporto, era certo degli orari riferiti poiché, in modo che oggi appare singolare, aveva proprio nella stessa occasione preso appunti in modo autonomo, appunti, tuttavia, mai messi a disposizione del Tribunale. La scarsa coincidenza tra le due deposizioni, pertanto, fa ritenere che la versione dello Schifa sia maggiormente aderente alla realtà dei fatti e che, pertanto, tenuto conto dell’unico documento valido prodotto dalla Difesa, attestante lo svolgimento del convegno a partire dalle ore 18.00 del 22 novembre 2002, è altamente probabile che il Lodeserto dopo le ore 20.30 fosse già rientrato a san Foca. In realtà Louro Anis veniva rintracciato solo alle ore 21.00 del 22 novembre, ben tre ore dopo l’inizio del convegno citato. È verosimile ritenere che dal momento in cui è stato rintracciato a quello in cui è stato riportato al centro sia passato un tempo congruo. Peraltro, nella descrizione di fatti fornita dal Louro, la presenza del direttore è registrata solo in momento successivo, dopo aver subito la prima aggressione da parte dei militari di stanza al C.T.P.. Anche in questo caso, dunque, vi è perfetta compatibilità temporale tra la partecipazione del Lodeserto al convegno in Trepuzzi ed al pestaggio ai danni del marocchino, avvenuto con alto grado di probabilità, solo dopo le ore 21.30 di quella sera. Tutto ciò anche senza voler considerare che la versione del Louro è ampiamente confermata da quella resa dal teste Benshine nel corso del suo esame. La versione fornita dalle persone offese, dunque, è ampiamente corroborata da elementi esterni che si rinvengono nei contenuti delle dichiarazioni di altre persone offese, nelle indicazioni degli altri testimoni, nella documentazione medica e nella logica elaborazione dei dati oggettivi e di tutte le emergenze istruttorie. Gli apporti probatori diversi dalle dichiarazioni delle persone offese sono numerosi. Importante la deposizione di Mohamed Elshazzlly, operatore del Centro addetto alla cucina. Egli, citato quale teste dalla Difesa di Lodeserto Cesare, ha iniziato la sua deposizione con un non richiesto ringraziamento rivolto a don Cesare per l’aiuto fornitogli al pag. 17 fine di regolarizzare la propria posizione di immigrato clandestino. Nel corso di tutto l’esame ha genericamente escluso la figura del direttore da ogni coinvolgimento nelle vicende per cui è processo e, al contempo, ha fornito numerosi riscontri alle deposizioni delle persone offese. È stato molto preciso nel ricordare episodi di pestaggi ai danni di ospiti del Centro, pur non riferendone i nomi, ed, in particolare, l’aggressione rivolta dai carabinieri a Louro Anis. Racconta in proposito che nella serata in cui Louro veniva riportato al C.T.P. i carabinieri – tra i quali riconosce con sicurezza D’Ambrosio – lo picchiavano con un manganello sulla testa e sui genitali e lo costringevano ad ingoiare un pezzo di prosciutto che proprio il D’Ambrosio aveva preso dalla cucina. Quest’ultimo in quella sera si era recato nei locali della cucina dove con il consenso di “Luca” Lodeserto si faceva consegnare dal cuoco un pezzo di prosciutto. Mohamed Elshazzlly, ritenendo che il carabiniere volesse prepararsi un panino e preso atto del consenso di Luca, gli consegnava quanto richiesto, rimanendo, tuttavia, perplesso del fatto che il militare non avesse preso insieme al prosciutto anche il pane. Uscito dalla cucina il carabiniere, dalla fessura della porta rimasta semichiusa assisteva al doloroso spettacolo che vedeva il Louro vittima delle percosse anzidette e costretto a mangiare il pezzo di prosciutto. Elshazzlly assisteva anche alle percosse ad opera di militari ai danni di Soiuden Montassar e, quando faceva rilevare alla Vieru quel che stava subendo il cittadino marocchino, veniva perentoriamente zittito. Forniscono riscontro alle dichiarazioni delle persone offese anche le deposizioni del dott. Francesco Refolo, medico in servizio presso il presidio sanitario del C.T.P., e del dott. Luigi Turco, in servizio presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale “Vito Fazzi”. Il dott. Refolo, di turno nella notte tra il 21 e 22 novembre 2002, ricorda di essere stato chiamato dai Carabinieri intorno alle ore 12.25 della notte poiché a seguito di un tentativo fuga alcuni ospiti avevano riportato lesioni. Recatosi nel corridoio degli uffici soccorreva quattro uomini feriti, uno dei quali particolarmente grave (ferita nella zona orbitaria) per il quale disponeva il ricovero in ospedale, rappresentando direttamente al Direttore la necessità del ricovero. Somministrava terapie antidolorifiche. Non conosceva i loro nomi. Si doveva avvalere necessariamente dei tesserini per redigere i certificati. Infatti, precisa, tutti gli ospiti che si rivolgevano all’infermeria venivano identificati con un numero. Consultando la documentazione sanitaria, riferisce che i feriti erano Souiden Montassar, Camissa Amid, Jacobi Ridha e Abedadi Mohamed. Nel corso della notte, intorno alle ore 4.00 del mattino, nuovamente chiamato, soccorreva Jedidi Feker, anch’egli giacente sul pavimento del corridoio. Gli somministrava una terapia antinfiammatoria poiché era dolorante e giaceva in posizione rannicchiata. Aveva riportato fratture scapolo-omerale e radioulnale. Ricorda che i primi 4 feriti erano stati lasciati nel corridoio almeno per due ore. Come tutti gli altri medici in servizio presso il Regina Pacis, sentiti in dibattimento, non fornisce spiegazioni in pag. 18 ordine alla genesi delle lesioni rilevate. Sicuramente, contrariamente al dott. Oreste Ruggeri, non afferma che le lesioni sono sicuramente conseguenza della caduta, ma si limita a spiegare tecnicamente gli interventi effettuati. Il dott. Ruggeri, invece, nella confusione dei ricordi riesce solo a riferire al Tribunale fatti non definiti a lui noti perché raccontatigli da altri soggetti non meglio identificati. È appena più preciso solo sulla medicazione somministrata al cittadino marocchino Salem Mohamed, rilevata peraltro dal registro degli interventi, del quale ricorda lesioni, non meglio specificate, a suo dire “compatibili con la caduta” dalla balconata dell’edificio. Rilevante, al contrario, la deposizione del dott. Luigi Turco, apparsa particolarmente genuina. Egli, in servizio nel nosocomio di Lecce il giorno del ricovero di Souiden Montassar, ricorda il momento in cui veniva portato al Pronto Soccorso l’ospite del C.T.P. accompagnato da due persone di cui, tuttavia, non riesce a precisare il nome (la circostanza è comunque nota in base alle altre emergenze dibattimentali). Riferisce che Souiden, il cui nome era stato erroneamente annotato in cartella dall’infermiere addetto all’accoglienza ed al triage (rilevazione delle condizioni del paziente e prima valutazione in termini di gravità della patologia), non riusciva ad esprimersi nella lingua italiana per cui ogni informazione sulla causa delle lesioni gli veniva fornita dagli accompagnatori. Rilevante il brano della sua deposizione laddove ricorda al Tribunale il momento in cui chiedeva agli accompagnatori la genesi delle lesioni riportate da Souiden: questi ultimi individuavano la causa nella caduta dalla balconata del Centro nel corso di una fuga e contemporaneamente il paziente, evidentemente comprendendo il tenore della conversazione, muoveva la mano con il gesto che usualmente viene utilizzato per intendere percosse (“botte” riferisce il teste). È chiaro, dunque, che Souiden cercava, pur nelle precarie condizioni in cui era stato condotto in ospedale, di spiegare con il mezzo gestuale, non riuscendo ad esprimersi nella lingua italiana, quanto gli fosse accaduto. Il dott. Turco, inoltre, chiarisce le circostanze che hanno portato a registrare nella cartella clinica le generalità di Deli Mohamed, persona diversa dall’uomo effettivamente ricoverato, situazione poi definitivamente chiarita attraverso l’individuazione fotografica effettuata dal medico in data 23 gennaio 2003 dinanzi ai carabinieri del Comando provinciale di Lecce (il dott. Turco riconosce senza dubbio l’uomo ricoverato nell’effige ritraente Souiden Montassar). Nel corso dell’istruttoria era stato ingenerato il dubbio che Souiden avesse volontariamente indotto in errore i medici del pronto soccorso al fine di celare la sua vera identità. Ciò, oltre che sembrare inverosimile, è smentito dai fatti. Souiden viene condotto in ospedale con numerose ferite sul volto, dolori in altre parti del corpo ed un evidente trauma cranico. Non è in grado di esprimersi nella lingua italiana al punto che il medico deve necessariamente rivolgersi agli accompagnatori, operatori del C.T.P., per apprendere le notizie necessarie a determinare l’anamnesi e a formulare la diagnosi. Appare evidente che il ferito non fosse stato proprio in grado di comunicare né con l’infermiere dell’accettazione, né con il medico, al quale per esprimere il suo dissenso sulla versione fornita dagli accompagnatori si era visto costretto ad avvalersi pag. 19 del linguaggio gestuale. A ciò va aggiunto, riferisce il dott. Turco, che nella generalità dei casi l’identificazione dei pazienti provenienti dal Regina Pacis avveniva attraverso il tesserino di riconoscimento e attraverso la voce degli stessi accompagnatori. Per giunta è decisamente illogico e inverosimile che Souiden in quella situazione di indiscutibile sofferenza abbia addirittura avuto la prontezza di riflessi di fornire le generalità di altra persona complete delle indicazioni esatte di luogo e data di nascita. È, invece, sicuramente più verosimile che gli stessi accompagnatori abbiano, per errore incolpevole o per motivi non conoscibili, utilizzato il tesserino di altro ospite del Centro. La responsabilità dei militari I testimoni sentiti nell’incidente probatorio e nel dibattimento hanno descritto con chiarezza e con dovizia di particolari le condotte dei rispettivi aggressori, civili e militari. La descrizione delle condotte è stata già ampiamente riportata nella parte della motivazione relativa ai racconti delle persone offese. In questa sezione si affronterà specificamente l’aspetto relativo alle individuazioni fotografiche ed alla ricognizione di persona effettuata nel corso dell’incidente probatorio, a completamento delle deposizioni già analizzate. Nel corso delle indagini preliminari ad Abedhadi, Benshine e Deli viene mostrato un album fotografico composto da 150 fotografie ritraenti i carabinieri in servizio nella provincia di Lecce e quelli in servizio presso l’XI Battaglione Puglia di stanza al C.T.P. “Regina Pacis” nei giorni oggetto di imputazione. Il maresciallo Doria, sentito in dibattimento, ha riferito di aver redatto i verbali di individuazione fotografica in data 28 dicembre 2002 e 9 gennaio 2003 mostrando alle predette persone offese gli album suddetti. Ha precisato che l’individuazione si è svolta con la corretta osservanza della procedura richiedendo a coloro cui le effigi venivano sottoposte in visione la previa descrizione delle persone da individuare. Si evince chiaramente che il maresciallo aveva avuto cura di modificare nelle due giornate l’ordine di posizionamento delle fotografie così da evitare che chi avesse effettuato la prima individuazione potesse riferire successivamente agli altri i numeri delle foto indicati. Con certezza Abedhadi, Benshine e Deli descrivono, prima, e indicano, poi, la fotografia ritraente D’Ambrosio Francesco, precisando trattarsi del militare che li aveva costretti a mangiare la carne di maiale. Benshine individua, inoltre, l’effige di Ottomano Vito e Deli quelle di Blasi, Di Pierro, Fumarola e D’Epiro, precisando trattarsi dei carabinieri che avevano usato violenza nei loro confronti. Nel corso dell’incidente probatorio a Louro, Benshine, Abedhadi, Souiden, Deli e Salem alle udienze del 6, 7, 14, 17 e 28 marzo 2003 vengono mostrati i militari imputati, nelle forme della ricognizione di persona, in gruppi di tre, composto ogni gruppo da un imputato ed altre persone estranee ma somiglianti, assumendo prima delle operazioni da ogni testimone le informazioni previste per legge e la descrizione degli aggressori. pag. 20 Louro Anis riconosce senza incertezze D’Ambrosio, Ottomano, Coscia e Mele, precisando che gli ultimi due, pur non avendo direttamente esercitato violenze, avevano partecipato all’aggressione, senza agire direttamente, ma senza intervenire in alcun modo per fermare i colleghi. Non riconosce il carabiniere De Vito Oronzo nei confronti del quale il Pubblico Ministero non eserciterà l’azione penale. Benshine Mohamed riconosce con sicurezza D’Ambrosio, precisando trattarsi del militare che l’aveva costretto ad ingoiare la carne di maiale, e Ottomano, quale autore delle violenze a suo danno. Abedhadi Mohammed riconosce tra le tre persone mostrategli al di là dello specchio parabolico il D’Ambrosio, il carabiniere che l’aveva costretto a mangiare la carne di maiale. Souiden Montassar riconosce con certezza Alberga Vito, precisando trattarsi del militare che l’aveva picchiato. Rimane incerto sulla ricognizione di Casafina (dal verbale del 7.3.03 “non sono molto certo perché al momento dei fatti ero col viso insanguinato, ma mi pare che la prima persona a destra – precisa il Giudice per le indagini preliminari nel verbale riassuntivo: carabiniere Casafina – era presente ai fatti. Era presente ma non mi ha colpito”). Deli Mohamed non riconosce i carabinieri Alberga, Casafina, Ottomano, Coscia e Mele; è incerto nella ricognizione di Blasi; riconosce D’Epiro, Di Pierro, precisando che all’epoca dei fatti portava la barba, Fumarola e D’Ambrosio. Salem Mohamed non riconosce De Vito Oronzo – mai rinviato a giudizio – Blasi, D’Epiro, Di Pierro e Fumarola, ma è decisamente sicuro nel riconoscere D’Ambrosio. Il difensore dei militari imputati ha eccepito, prima della dichiarazione di utilizzabilità degli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento, la nullità dell’attività di ricognizione per il mancato rispetto delle disposizioni relative alle modalità di svolgimento indicate dall’art. 214 c.p.p. Si è fatto rilevare la parte della Difesa che le persone affiancate agli imputati nel corso della ricognizione non fossero dotate delle caratteristiche di somiglianza richieste dalla norma citata. La questione è infondata. Invero, da un’attenta lettura dei verbali di incidente probatorio si evince chiaramente che la medesima eccezione è stata formalizzata dalla Difesa alle udienze del 7 e del 17 marzo 2003. Correttamente il Giudice per le indagini preliminari in entrambe le occasioni ha sospeso le operazioni attivando la polizia giudiziaria al fine di reperire persone somiglianti agli imputati e ha ripreso le attività solo dopo aver rimosso la causa che avrebbe potuto inficiare la correttezza della ricognizione. Dunque, non si comprende la finalità della riproposizione di una questione già correttamente sollevata nell’incidente probatorio e contestualmente positivamente risolta dal Giudice per le indagini preliminari in ossequio alle disposizioni del codice di rito. Deve, pertanto, concludersi che l’attività di ricognizione è stata svolta nel perfetto rispetto delle disposizioni di legge e che il risultato è decisamente apprezzabile sul piano probatorio. Le risposte fornite dai testimoni sono assolutamente genuine e attendibili: essi, già valutati ampiamente in termini di credibilità, hanno fornito un’ulteriore conferma alla validità pag. 21 probatoria delle proprie deposizioni riconoscendo con certezza solo alcuni tra i carabinieri loro mostrati in ricognizione ed esprimendosi in termini di probabilità nei confronti di altri, escludendo del tutto di riconoscerne alcuni. Le ricognizioni e le dichiarazioni fornite dalle persone offese appaiono ancora più attendibili se si analizzano i turni di servizio e gli estratti del registro giornaliero redatto dal capo servizio, acquisiti nel corso del dibattimento. Vi è perfetta coincidenza tra la tempistica delle aggressioni riferite dai testi e gli orari dei turni dei carabinieri D’Ambrosio, Mele, Alberga, Di Pierro, Fumarola e Casafina. Per quanto riguarda Ottomano, Coscia e D’Epiro vi sarebbe una apparente discordanza: essi non risultano dagli atti trasmessi dal Comando dell’XI Battaglione Puglia si trovassero all’interno del C.T.P. al momento dei fatti loro attribuiti. Tuttavia, è emerso chiaramente in dibattimento che i documenti ufficiali non offrono alcuna garanzia sul piano della validità documentale poiché non fotografano esattamente la situazione delle presenze nel Centro in particolar modo nei giorni 22 e 23 novembre 2002. Quel che è chiaro è che al di là dei militari sicuramente presenti perché obbligati dagli ordini di servizio, ve ne erano altri in divisa o in abiti civili evidentemente accorsi per fronteggiare l’emergenza. La Difesa assume che se i nomi dei militari non sono riportati nei turni di servizio o nei registri, sicuramente essi non erano presenti. Ne discende, a parere della Difesa, che non possono aver commesso i fatti di cui sono accusati e che, dunque, i rispettivi accusatori non sono attendibili. In realtà il vaglio estremamente approfondito sulla credibilità delle persone offese, con la sola eccezione di Agrebi, Haddaji e Aidi, è stato ampiamente superato sia sotto un profilo intrinseco, che per quanto riguarda il gran numero di riscontri che hanno supportato le deposizioni. Pur senza considerare la particolarità della documentazione resa disponibile dall’XI Battaglione Puglia, piena di dubbie e singolari cancellature e correzioni, l’assunto della Difesa dei militari è condivisibile esclusivamente in un senso: i carabinieri i cui nominativi sono presenti negli ordini di servizio, negli elenchi dei turni e nel registro giornaliero erano senz’altro presenti. Ci si riferisce a D’Ambrosio, Mele, Alberga, Casafina, Di Pierro e Fumarola. Non si condivide, tuttavia, in senso contrario: non può affermarsi, infatti, che, sol perché non erano inclusi nei turni, militari quali Ottomano e Coscia (naturalmente in relazione ai momenti in cui le persone offese hanno narrato di essere stati picchiati e in relazione agli orari in cui sono stati rintracciati) non fossero presenti. Una serie di elementi induce a tale conclusione. In primis, il riconoscimento effettuato senza incertezze da Louro Anis e Benshine Mohamed. Essi sono stati precisi sia nelle descrizioni preliminari che nella ricognizione. Inoltre, da più parti si è affermato nel corso dell’istruttoria che al Regina Pacis non ci fossero solo i dodici carabinieri previsti per ordine di servizio. È plausibile ed altamente probabile, invece, che tenuto conto della grave emergenza sorta nella notte tra il 21 e il 22 novembre che fosse stato disposto dal comando il rientro in servizio anche di coloro i quali erano a riposo. pag. 22 Vi era stata una ribellione di un numero consistente di trattenuti, sfociata nella fuga di circa quaranta di loro; era necessario, pertanto, predisporre tutti i mezzi e contare su tutti gli uomini disponibili per sedare quella che gli stessi carabinieri hanno definito una rivolta e per limitarne i danni. E l’argomentazione appena esposta è ampiamente suffragata dai contributi delle dichiarazioni testimoniali. Si è appreso dai testi Deli, Salem e Louro che, oltre ai militari in divisa, vi erano altri carabinieri che vestivano abiti civili. Il maresciallo Martina, allertato nella notte della fuga in qualità di comandante della Stazione territorialmente competente, ha parlato di più di venti militari – ben oltre, dunque, quelli previsti per ordine di servizio – considerando quelli che cessavano e quelli che iniziavano il turno, oltre a tutti coloro che venivano rintracciati al di fuori dei turni e che alloggiavano in un albergo di San Foca. I testi Di Noia e Natale, militari in servizio, dichiarano che hanno visto in quelle giornate arrivare “rinforzi” disposti dal comando. È ragionevole ritenere, dunque, che tutti i militari riconosciuti dalle vittime fossero presenti e abbiano posto in essere le condotte di cui sono accusati. Pertanto, si ritiene provata al di là di ogni dubbio la responsabilità di D’Ambrosio, Mele, Alberga, Ottomano, Coscia, Di Pierro e Fumarola. Non piena, invece, rimane la prova nei confronti di Casafina, D’Epiro e Blasi. Casafina Antonio, pur essendo di turno nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2002, ha a suo carico solo l’incerto riconoscimento da parte di Souiden Montassar. Egli, nel corso dell’incidente probatorio, riconosce il militare, ma correttamente fa presente al giudice di non essere assolutamente certo della corrispondenza tra l’uomo che gli viene mostrato e il carabiniere presente alla sua aggressione. Blasi viene riconosciuto nel corso dell’individuazione fotografica - in ordine alla quale ha riferito il maresciallo Doria - da Deli Mohamed, ma non viene effettuata una ricognizione e sono state acquisite in dibattimento deposizioni, seppur non assolutamente coincidenti, che escluderebbero la sua presenza al momento dell’aggressione a Deli. D’Epiro, pur se riconosciuto nel corso della ricognizione, ha fornito una prova d’alibi attraverso la deposizione dei testi Ardito Giuseppe e Ardito Raffaella che hanno affermato che dal mattino fino al pomeriggio del 22 novembre il militare non fosse a San Foca. L’alibi è sorretto peraltro dal previsione dell’ordine di servizio in base alla quale D’Epiro dovesse svolgere il turno dalle ore 19.00 del 22 novembre 2002. Deve desumersi, pertanto, che Deli abbia commesso un errore nella ricognizione o, quanto meno, che la prova rimane contraddittoria. Per i motivi suddetti, l’unica decisione possibile nei confronti di Casafina, Basi e D’Epiro rimane quella assolutoria per non aver commesso il fatto. Al contrario si ritiene ampiamente provata la responsabilità degli altri militari. D’Ambrosio Francesco e Ottomano Vito sono tra gli imputati coloro i quali hanno posto in essere le condotte più gravi. D’Ambrosio è il carabiniere indicato da tutte le persone offese sia attraverso le descrizioni che le ricognizioni come pag. 23 colui che con inimmaginabile violenza li ha costretti ad ingoiare pezzi di carne di maiale cruda ben consapevole della fede musulmana delle proprie vittime e della ricorrenza del periodo di Ramadan nel corso del quale notoriamente le persone di religione musulmana si sottopongono ad una serie di privazioni. Le scene descritte dalle vittime sono state ampiamente riportate nella sezione relativa ai racconti delle persone offese e non serve riprodurle in questa parte della motivazione. Egli è senza dubbio colui che il cuoco Elshazzlly chiama “l’amico di Luca” che si reca nei locali della cucina per farsi consegnare la carne di maiale. È colui che sevizia le persone offese costringendoli con percosse ad ingoiare i pezzi di carne anche aiutandosi con il manganello per infilare con la forza in bocca ai magrebini quanto essi rifiutavano con la poca forza loro rimasta dopo il pestaggio. È colui che si fa aiutare sicuramente dal collega Ottomano per tenere ferme le sue vittime per portare a termine le sevizie descritte. E insieme a lui, o in momenti diversi, i carabinieri Ottomano, Alberga, Di Pierro, Mele, Fumarola e Coscia coprono con brutalità coloro che si sono macchiati del tentativo di fuga di immani violenze; li percuotono con le mani, con i calci, con i manganelli in varie parti del corpo al punto di cagionare tutte le lesioni ampiamente refertate in atti, con l’aiuto e la collaborazione dello stesso direttore del C.T.P. e dei suoi collaboratori. Alcuni di essi, in alcune occasioni, pur non colpendo direttamente, restano a guardare le violenze che si consumano sulle persone dei magrebini inermi senza adoperarsi in alcun modo per porre fine al compimento di atti illeciti che hanno l’obbligo giuridico di arrestare (cfr. ex plurimis Cass. Pen., sez. II, 6.12.91, Viani). Le responsabilità di don Cesare Lodeserto e degli operatori del C.T.P. I racconti delle persone offese, ampiamente attendibili, come sottolineato più volte, consentono di evidenziare con chiarezza le condotte degli imputati Lodeserto Cesare, Lodeserto Giuseppe, Vieru Natalia, Dokaj Paulin, Gozlugol Husevin, Mara Armando e Sen Ramazan. In realtà basterebbe leggere la deposizione di Souiden Montassar per comprendere come il direttore ed i suoi stretti collaboratori abbiano tutti tenuto condotte non solo riprovevoli, ma, quel che in questa sede rileva, penalmente rilevanti (“chiunque che passava di lì, carabinieri o uno che lavorava al centro, davano botte, era un gioco” - teste Souiden Montassar udienza 19.3.03 incidente probatorio). Rimandando alla sezione relativa alle deposizioni delle persone offese, si richiamano di seguito brevemente gli apporti dichiarativi in relazione a ciascun imputato. Lodeserto Giuseppe detto “Luca”: riferiscono di violente percosse Ben Slama, Salem, Souiden e Deli. Quest’ultimo aggiunge che, oltre a partecipare direttamente al pestaggio, assiste, unitamente alla Vieru e a Dokaj, alla sevizia praticata dai militari, consistita nel costringere ad ingoiare carne di maiale, ridendo. Vieru Natalia detta “Natasha”: è chiamata in causa quale autrice di violente percosse da Ben Slama, Deli, Benshine, Souiden, Abedhadi. Dokaj Paulin detto “Paolo”: compare quale autore delle violenze nelle deposizioni di Salem, Deli, Benshine e Abedhadi. pag. 24 Gozlugol Husevin: Salem parla espressamente dell’imputato nel ricostruire la vicenda di cui è rimasto vittima. Non è stata raggiunta la prova delle violenze perpetrate ai danni di Tarconni Ridha. Mara Armando: partecipa al pestaggio ai danni di Benshine Mohamed. Sen Ramazan: indicato quale partecipe al pestaggio ai danni di Benshine e Louro. A nulla rileva la circostanza che egli non fosse formalmente in servizio nella serata del 22 novembre. Egli, infatti, come gli altri operatori domiciliava presso il Centro ed è altamente verosimile che fosse disponibile in ogni momento, a prescindere dagli orari di turno, al fine di far fronte alla situazione di emergenza delineatasi nei giorni della fuga. Del resto, anche la presenza degli altri collaboratori del direttore è registrata continuamente come risulta dal compendio delle emergenze istruttorie. Lodeserto Cesare: dagli apporti dichiarativi di tutte le persone offese si delineano numerose condotte illecite tenute dal direttore. Ben Slama riferisce che don Cesare ha assistito a tutte le violenze di cui è stato vittima non intervendo in alcun modo al fine di far cessare la furia dei suoi collaboratori e dei militari, defilandosi dopo poco nel proprio ufficio davanti al quale il pestaggio veniva consumato. Salem riferisce di uno sputo ricevuto direttamente dal direttore il quale, peraltro, è rimasto inerte ad assistere alla scena delle sevizie dei militari che lo costringevano ad ingoiare la carne cruda. Deli e Benshine riferiscono di schiaffi subiti e della inerzia, divertita, del direttore dinanzi al pestaggio ed alle sevizie dei militari. Louro riferisce di percosse ricevute dal direttore. Souiden fornisce il racconto più crudo ripercorrendo in dettaglio il violento pestaggio cui don Cesare lo sottopone. Abedhadi distingue chiaramente il direttore intento a picchiare i suoi connazionali che avevano tentato la fuga con un manganello. Come si è già visto nel paragrafo dedicato all’attendibilità delle persone offese, non è emerso alcun elemento contrario alla ricostruzione sin ora effettuata. Le dichiarazioni rese dall’imputato Lodeserto Cesare nel corso dell’esame dibattimentale non sono state utili e idonee a porre in discussione l’impianto accusatorio come confermato in dibattimento. L’imputato ha tentato di rendere poco credibili le deposizioni delle persone offese utilizzando argomenti non convincenti e non corroborati in alcun modo; al contrario alcuni dettagli forniti dall’imputato concorrono a conferire maggiore credibilità alle versioni dei fatti dei testimoni – persone offese. Egli ha tenuto a precisare di non aver commesso nulla di quanto era accusato, talvolta in modo maldestro (domanda del Pubblico Ministero: “E’ vero che lei ha sputato sul viso Salem Mohamed?” - risposta dell’imputato: “Io però devo andare a vedere nel viso, nelle foto, chi è Salem Mohamed.”), apportando elementi di valutazione che, tuttavia, non sono risultati credibili o idonei a demolire le prove a suo carico. Con riferimento alle condotte che Louro e Benshine gli attribuiscono, l’imputato ha tentato di porre in dubbio le deposizioni dei testi sottolineando che quanto dichiarato dal primo non poteva essere vero poiché in quella serata egli era impegnato a Trepuzzi quale relatore in un convegno. In realtà, si è già affrontata la questione nella sezione relativa alla pag. 25 attendibilità delle persone offese ricostruendo in base alle deposizioni degli uomini di scorta ed alla documentazione prodotta la cronologia degli eventi. Lo stesso imputato riferisce di essere rientrato al Centro tra le ore 21.15 e le ore 22.00. Come già detto, Benshine e Louro sono stati rintracciati alle ore 21.00 del 22 novembre 2002 e portati al C.T.P.. Il rientro del sacerdote nell’orario da egli stesso indicato è dunque perfettamente compatibile con la scansione temporale degli accadimenti narrati dai testi. In più, l’indicazione oraria dell’imputato rende ancora più discutibile la genuinità della deposizione del teste Dell’Aere che eventualmente verrà valutata dal Pubblico Ministero. Proprio in relazione a tale vicenda, inoltre, l’imputato al fine di provare la sua estraneità ai fatti, afferma che è inverosimile che egli avesse potuto compiere le azioni attribuitegli perché, altrimenti, il personale di scorta che lo accompagnava all’interno degli uffici, avrebbe dovuto assistere alle condotte illecite contestategli. In realtà, il Lodeserto è smentito dagli stessi uomini della scorta che precisano che in quella serata, come nelle altre occasioni, si limitavano a prelevare il sacerdote dall’ingresso del Centro senza varcarne la soglia. Altro elemento introdotto dall’imputato si riferisce alla inattendibilità del teste Taha che avrebbe, a suo dire, inviato una serie di messaggi incompatibili con la volontà di denunciare le sue condotte. In realtà la deposizione di Taha, che sicuramente ha lasciato trasparire la paura di riferire ogni dettaglio e una generale intimidazione esercitata nei suoi confronti in vista della deposizione, non ha comunque coinvolto la posizione del direttore, rispetto al quale non ha saputo riferire alcunché. Altro riferimento dell’imputato è quello relativo alla vicenda del procedimento penale iscritto a carico di Rejibi Zouhaier, cittadino tunisino trattenuto nel C.T.P. La vicenda, evidentemente estranea all’oggetto del procedimento, è stata riferita dall’imputato al fine esclusivo di invalidare le deposizioni delle persone offese riportando una frase proferita dal tunisino in occasione di una manifestazione di protesta svoltasi all’esterno del Regina Pacis. Il Rejibi è stato denunciato in data 1 ottobre 2003 per una aggressione di cui il Lodeserto è rimasto vittima nel corso della quale il tunisino avrebbe rivolto le seguenti minacce al direttore: “ti farò ammazzare dai miei fratelli, finché vivrò cercherò per ammazzarti”, “so cosa devo fare – faccio come i miei fratelli così mi daranno anche il permesso di soggiorno”. Successivamente, in data 12 ottobre 2003, in occasione di una manifestazione di un non specificato “gruppo di persone” dinanzi al C.T.P., il Rejibi, riferisce l’imputato richiamando la propria denuncia in data 28.1.03, che “capeggiava il gruppo dei rivoltosi”, aizzava gli altri ospiti e pronunciava l’espressione “fate entrare dentro le armi. Il resto lo facciamo noi”. Pur senza considerare che le espressioni che il tunisino avrebbe pronunciato sono state riprodotte solo dalla memoria dell’imputato Lodeserto e documentate dagli atti del procedimento che, comunque, si sviluppano solo sulla denuncia del medesimo imputato, e pur senza valutare che la verità processuale sui fatti attribuiti al Rejibi non risulta essere stata consacrata in alcuna sentenza, non si comprende come una manifestazione violenta e minacciosa di un soggetto del tutto scollegato dalle odierne persone offese, ben un anno dopo i pag. 26 fatti relativi alla fuga oggetto di questo giudizio, possa inficiare la valenza probatoria delle accuse dei magrebini testi in questo processo le cui deposizioni, come si è visto diffusamente, hanno brillantemente superato il vaglio di credibilità sia sotto il profilo intrinseco che estrinseco. Dunque, l’utilizzazione della vicenda appena indicata non manifesta alcun pregio probatorio e rimane del tutto inconferente rispetto ai reali elementi di prova acquisiti nel dibattimento. In conclusione, può affermarsi che le condotte addebitate al Lodeserto siano risultate provate al di là di ogni dubbio. Egli deve ritenersi responsabile di tutte le azioni delittuose direttamente esercitate ai danni delle persone offese e, in virtù del principio di causalità per omissione dettato dall’art. 40 c.p., delle condotte tenute dagli operatori del Centro. Lodeserto ricopriva all’epoca dei fatti il ruolo di dirigente della struttura cui per convenzione era attribuito l’obbligo di cura e assistenza dei cittadini stranieri trattenuti in attesa di espulsione. La disposizione contenuta nell’art. 40 cpv. c.p. risponde ad esigenze di solidarietà nel senso che sussistono in capo a determinati soggetti posizioni di garanzia che li obbligano ad attivarsi laddove sussista la necessità di assicurare tutela a beni giuridici di particolare rilievo. Il principio trova inequivocabile riscontro nelle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 2 e 32 della Carta costituzionale. L’obbligo di impedire l’evento, dunque, sorge in capo al soggetto che ha una sostanziale posizione di garanzia del suo non verificarsi. Tale posizione di garanzia appartiene al soggetto titolare di un potere, un dominio o una situazione di signoria e si atteggia funzionalmente come posizione di controllo e di protezione. Pertanto, il ruolo di vertice all’interno di una organizzazione importa per il soggetto che lo riveste l’obbligo di proteggere i beni a lui affidati e di controllare fonti di pericolo sottoposte alla sua sorveglianza. I beni giuridici la cui protezione è demandata a chi assume la posizione apicale, è indiscusso comprendano la vita e l’incolumità individuale. In ossequio all’enunciato principio la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la responsabilità a titolo di concorso dei genitori per i fatti delittuosi commessi alla loro presenza nei confronti dei figli o dei responsabili di strutture di cura e assistenza laddove tollerino colpevolmente che il reato venga consumato non attivandosi o attivandosi in modo inefficace pur essendo in grado di impedire l’evento dannoso a carico delle persone affidate (cfr. ex plurimis Cass. Pen., sez. IV 17.10.94, Fiorillo; 16.10.91, Cosco). Non v’è dubbio in ordine alla posizione apicale del Lodeserto, direttore del Centro alle cui dipendenze erano impiegati, in virtù di un rapporto di lavoro, Lodeserto Giuseppe, Vieru Natalia, Dokaj Paulin, Gozlugol Husevin, Mara Armando e Sen Ramazan. E non v’è dubbio che i cittadini extracomunitari trattenuti nella struttura del Regina Pacis fossero affidati alle cure ed all’assistenza del direttore e del personale impiegato. pag. 27 È emerso chiaramente che, oltre ad aver tenuto condotte illecite direttamente rivolte ai magrebini, il direttore abbia assistito alle violenze perpetrate dai suoi sottoposti ai danni delle odierne persone offese, non solo tollerandole, ma anche non attivandosi in alcun modo al fine di farle cessare e talvolta assistendovi con atteggiamento di approvazione. Dunque, in capo al Lodeserto vi era uno specifico obbligo di controllo sui suoi dipendenti e di un obbligo di preservare le persone a lui affidate da qualsiasi comportamento lesivo con la conseguenza che si rappresenta come comportamento esigibile quello di impedire le condotte illecite o, quantomeno, farle cessare e renderle note all’autorità giudiziaria. Egli non le ha impedite, non le ha inibite e non le ha denunciate poiché non solo le approvava, ma le aveva autonomamente poste in essere, costituendo un esempio negativo per i suoi stessi collaboratori i quali erano, pertanto, implicitamente autorizzati a compiere gli atti lesivi. Qualificazione giuridica dei fatti contestati Il Pubblico Ministero ha ritenuto di contestare il delitto di abuso dei mezzi di correzione nella parte normativa della rubrica. All’esito del dibattimento, ai sensi dell’art. 521 c.p.p., si è ritenuto che i fatti così come contestati dovessero essere qualificati nei termini di cui agli artt. 110, 610, 582, 585 in relazione all’art. 577 e 61 n. 4 c.p. La norma del codice di rito citata conferisce al giudice il potere di “dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione” pronunciando sentenza, purché non ecceda la sua competenza o non si atteggi come “fatto diverso”, ipotesi in cui è tenuto a trasmettere gli atti al Pubblico Ministero competente affinché eserciti ex novo nei modi di legge l’azione penale. La disposizione, unitamente all’art. 522 c.p.p., tutela il principio di correlazione tra accusa e sentenza allo scopo di garantire il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, l’esercizio effettivo della difesa dell’imputato. Ne consegue che non è possibile ipotizzare la violazione del principio in astratto prescindendo dalla natura dell’addebito specificamente formulato nell’imputazione e dalla possibilità di difesa che all’imputato sono state concretamente offerte dal reale sviluppo della dialettica processuale. Dunque, la violazione del principio sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto agli elementi oggettivo e soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato risulti incompatibile con una sua discolpa. In sostanza deve realizzarsi una vera e propria trasformazione dei contenuti essenziali dell’addebito in modo che l’imputato venga posto a sorpresa dinanzi ad un fatto rispetto al quale non ha avuto nessuna possibilità di difesa (ex plurimis Cass. pen. Sez. IV 21.1.05, n. 12175; Sez. II, 2.12.04, n. 26; Sez. V 9.11.04, n. 46203; Sez. feriale 3.9.04, n. 36227). Ne consegue che è rispettato il principio di correlazione allorché il giudice prenda una decisione sui fatti descritti nell’imputazione, in ordine ai quali si è sviluppato un regolare contraddittorio e l’imputato abbia esercitato pienamente le facoltà difensive, dichiarando tuttavia che quei fatti, e non altri, devono essere qualificati diversamente. L’unico limite pag. 28 imposto al giudice risiede nella competenza a giudicare il fatto ai sensi degli artt. 5 e ss. c.p.p., nel senso che il fatto diversamente qualificato non appartenga alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, anziché monocratica. La decisione presa in questo processo ha solo ed esclusivamente comportato una modifica del nomen iuris dei comportamenti delittuosi tenuti dagli imputati, senza alterare in alcun modo la struttura dell’imputazione o la ricostruzione del fatto operata al momento della contestazione. Sono stati dialetticamente ricostruiti e giudicati i fatti come descritti nella rubrica, ritenendo, infine, che il Pubblico Ministero aveva attribuito ai fatti medesimi una qualificazione non corretta. L’aver tenuto da parte degli imputati le condotte descritte, consistite nell’uso della violenza fisica al fine di costringere le persone offese a sopportare costrizioni umilianti e nella causazione delle lesioni, non può qualificarsi in termini di abuso di mezzi di correzione, bensì in termini di violenza privata e lesioni aggravate, reati appartenenti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica. Il delitto previsto dall’art. 571 c.p. si sostanzia nella condotta di chi abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia determinando un pericolo di malattia nel corpo o nella mente, con l’ulteriore specificazione che la causazione di lesioni personali o della morte aggrava la fattispecie ed il trattamento sanzionatorio. Dunque, l’abuso dei mezzi di correzione non è altro che una enfatizzazione oltre il limite consentito delle modalità educative e disciplinari idonee a determinare il pericolo dell’insorgere di una malattia fisica o mentale. L’interpretazione giurisprudenziale della disposizione in questione ha chiarito che integra la fattispecie criminosa di cui all’art. 571 c.p. “l’uso in funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che trasmodi nell’abuso sia in ragione dell’arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell’eccesso della misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza” (Cass. Pen. Sez. VI 7.11.97, Paglia), specificando che “il termine <<correzione>> va assunto come sinonimo di educazione e presuppone che di tali mezzi … possa farsi un uso consentito e legittimo che però, trasmodando in apprezzabile eccesso, si trasforma in illecito, così integrando la figura dell’abuso” (Cass. pen. Sez. VI 9.1.04, n. 4934). Ha chiarito inoltre che “l’eccesso dei mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 c.p. anche se retto dall’animus corrigendi” (Cass. pen. Sez. VI 16.5.96, n. 4904) poiché “l’uso della violenza non può mai ritenersi finalizzato a scopi rieducativi” (Cass. pen. Sez. VI 26.10.04, n. 44621). Peraltro al fine di stabilire se ricorra l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 571 c.p. deve esaminarsi non solo l’elemento oggettivo della fattispecie concreta e, dunque, la correlazione tra i mezzi e i metodi e le finalità educativa e disciplinare, ma anche l’elemento soggettivo e cioè che il motivo che abbia determinato l’agente sia quello disciplinare e correttivo (Cass. pen. Sez. VI, 11.4.96, Carbone). La disamina della interpretazione giurisprudenziale consente di comprendere pienamente la struttura del reato e la reale essenza dello stesso sotto il profilo del bene giuridico pag. 29 tutelato, oltre che di escludere che le condotte descritte in rubrica siano sussumibili sotto la tipologia di delitto previsto e punito dall’art. 571 c.p. L’aver ricondotto le persone offese nel C.T.P. malmenandole selvaggiamente, deridendole e trattandole alla stregua di bestie, costringendo loro con violenze inaudite a ingurgitare pezzi di carne di maiale cruda nella piena consapevolezza della fede musulmana che le caratterizzava, ragione per cui quel tipo di carne, ancor più nel periodo del Ramadan, era assolutamente vietata, non può assolutamente costituire un mezzo educativo o correttivo, poiché si sostanzia in una violenza del tutto gratuita e abietta. Non si riesce davvero a rintracciare l’intento di correzione nelle condotte che sono state ampiamente descritte; è, invece, del tutto evidente che l’unico motivo che ha determinato gli agenti è stato quello punitivo della violenza, della prevaricazione e dell’umiliazione, ferendo nel corpo e nell’animo soggetti disperati colpevoli solo di aver tentato una fuga. Pertanto, oltre alle lesioni ampiamente certificate in atti, è chiaro che l’aver costretto a subire comportamenti quali quelli della costrizione a mangiare carne di maiale, o il non averli impediti, e le derisioni per il solo fatto di aderire ad un credo religioso non può che integrare il delitto di violenza privata. In proposito, la Suprema Corte precisa che “l'abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto e punito dall'articolo 571 del Cp, presuppone un uso consentito e legittimo di tali mezzi, tramutato per eccesso in illecito (abuso): di conseguenza il reato non è configurabile quando vengano usati mezzi di per sé illeciti, per la loro natura o anche per la potenzialità di danno alla persona o alla psiche, dovendo in questo caso la condotta essere ricondotta alle ipotesi criminose realizzate con i citati mezzi (lesioni personali volontarie, violenza privata, maltrattamenti). (Nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva qualificato come violenza privata la condotta posta in essere dai responsabili di un campo scout, i quali, per punire un minore a loro affidato, gli avevano inflitto una punizione degradante e umiliante, caratterizzata dall'uso della violenza, consistita nell'averlo legato a un palo in cemento con una corda, nel cospargerlo di sughi di scarto e detersivo per piatti, nel farlo oggetto, infine, del getto d'acqua di una pompa; trattavasi, secondo la Corte, di condotta caratterizzata dall'uso di violenza, non riconducibile come tale, neppure in termini di abuso, al concetto di "correzione", dovendosi intendere questo nel significato di "educazione" e non potendosi quindi perseguire alcuna meta educativa mediante l'utilizzo di uno strumento che contraddica i fondamentali valori di pace e rispetto che devono caratterizzare i apporti umani)” (Cass. pen. Sez. V, 5.11.02, n. 36842, Iacono e altri). Con il delitto di violenza privata concorre quello di lesioni aggravate ai sensi dell’art. 61 n. 4 c.p. per aver adoperato sevizie e agito con crudeltà verso le persone. In ordine alle lesioni, come già detto, la documentazione sanitaria in atti attesta, insieme a tutti le altre emergenze istruttorie, la sussistenza del reato. Non v’è dubbio in ordine alla configurabilità dell’aggravante che ricorre ogniqualvolta l’agente infligga alla vittima sofferenze che esulino dal normale processo di pag. 30 causazione dell’evento, caratterizzate dalla gratuità e cagionate da una condotta particolarmente riprovevole, sintomo dell’ansia dell’agente medesimo di appagare la propria volontà di arrecare dolore. La lettura delle deposizioni rende palpabile in tutta la sua scioccante evidenza come le lesioni cagionate alle persone offese siano state proprio accompagnate dalla volontà di infliggere tormenti e sofferenze alle vittime per il solo piacere di vederle soffrire. Non sono altrimenti spiegabili le modalità delle azioni violente, le derisioni (Vieru a Salem: “Dove sta Allah che ti salva e ti protegge adesso?” – deposizione di Salem Mohamed, verbale udienza 4.3.03), l’accanimento nel picchiare i fuggitivi, il tenerli fermi mentre con un manganello erano costretti a mangiare la carne di maiale. Capo B) della rubrica. Le condotte dei medici Cazzato e Roberti. Cazzato Anna Catia e Roberti Giovanni, medici dipendenti dalla ASL LE/1 in servizio presso l’ambulatorio permanente del C.T.P. “Regina Pacis” sono accusati di avere formato certificazioni sanitarie relative alle lesioni subite dai cittadini marocchini, odierne persone offese, attestando falsamente che le lesioni dai predetti riportate erano state generate “da lancio volontario dal piano sopraelevato del centro, per tentata fuga dallo stesso”. In base all’impostazione della pubblica Accusa i medici figurerebbero quali autori materiali, insieme a Lodeserto Giuseppe, su specifica indicazione del direttore Lodeserto Cesare che, pertanto, figurerebbe quale autore morale. In sintesi, l’ipotesi dell’Accusa consisterebbe nella seguente ricostruzione: al fine di celare le aggressioni – e tutte le conseguenze lesive – perpetrate ai danni dei trattenuti che avevano tentato la fuga, il direttore chiedeva ai medici Cazzato e Roberti di formare falsi certificati attestando che tutte le lesioni riportate dalle vittime erano ascrivibili solo ed esclusivamente alla condotta volontaria di fuga, attraverso il lancio dalla balconata, così eliminando ogni possibilità di accertamento giudiziario della reale portata della vicenda e, dunque, del proprio coinvolgimento e di quello degli operatori, utilizzando per la compilazione materiale degli stessi il computer in dotazione alla Direzione attraverso l’opera di Lodeserto Giuseppe. Le emergenze dibattimentali hanno consentito di ritenere formata la prova piena della responsabilità dei medici e non anche del coinvolgimento del direttore e del suo collaboratore. Si tratta dei certificati medici apparentemente redatti in data 23 novembre 2002 nei quali è indicata per ciascun cittadino marocchino la tipologia delle lesioni riportate e per tutti l’identica espressione “quanto sopra causato da lancio volontario dal piano sopraelevato del centro, per tentata fuga dallo stesso”. Risultano firmatari dei certificati la dott. Anna Catia Cazzato per Ben Slama Lofti e Souiden Montassar e il dott. Giovanni Roberti per tutti gli altri. Vi sono numerose incongruenze che hanno correttamente indotto il Pubblico Ministero a formulare l’imputazione di falso ideologico. Per quanto riguarda la Cazzato, l’esame di tutta la documentazione acquisita consente di ritenere certamente che Ben pag. 31 Slama Lofti e Souiden Montassar non sono stati mai visitati dall’imputata. Ben Slama, rintracciato dopo la fuga alle ore 8.30 del 22 novembre 2002, riceve le prime cure dopo l’aggressione di cui si è ampiamente parlato, dal dott. Antonaci il quale, accertatosi delle condizioni fisiche, prescrive la visita ortopedica e l’esame radiografico al piede sinistro. Consegna la richiesta alla direzione alle ore 12.15 del 22 novembre. Ben Slama resta sicuramente nel C.T.P. fino alle ore 8.00 del giorno successivo; tanto è documentato dalle annotazioni riportate sul registro degli interventi eseguiti dai medici dell’ambulatorio del Centro dal quale è possibile ricostruire, attraverso dettagliatissime annotazioni, in relazione ai turni dei medici, la scansione temporale degli avvenimenti. Al turno del dott. Antonaci segue quello del dott. Roberti il quale somministra sicuramente tra le ore 14.00 e le ore 20.00 un farmaco antinfiammatorio (Sulidamor) al Ben Slama. Subentra in servizio il dott. Ruggeri il quale alla fine alla fine del proprio turno (ore 20.00 del 22.11.02 – ore 8.00 del 23.11.02) somministra al paziente una iniezione intramuscolare di un farmaco (Diasepam – è l’ultima annotazione nel registro relativamente al turno del dott. Ruggeri). Verosimilmente nelle prime ore del mattino Ben Slama viene condotto in ospedale dove rimane fino alle ore 15.20 del 23 novembre (la prima annotazione in cartella dell’ora di arrivo – 22/11/02 – è evidentemente frutto di errore materiale, avuto riguardo alla ricostruzione fin qui operata ed alla circostanza del mancato ricovero del paziente, come si evince dalla cartella medesima). L’annotazione coincide con il successivo intervento del dott. Antonaci, nel turno ore 14.00 – 20.00 del 23 novembre, che somministra al Ben Slama altri farmaci. Anche in data 24 novembre il dott. Antonaci (turno ore 14.00-20.00) si occupa ancora una volta di Ben Slama con la somministrazione di altro farmaco. Per quanto riguarda Souiden Montassar la medesima analisi minuziosa della documentazione consente di rilevare che egli sia stato visitato solo dal dott. Refolo nella notte della fuga (turno dalle ore 20.00 del 21.11.02 alle ore 8.00 del 22.11.02), nel corso della quale si disponeva il suo ricovero, e nella notte tra il 27 ed il 28 novembre 2002 per la somministrazione, in questa occasione di un ansiolitico. La ricostruzione, apparentemente macchinosa, consente di rilevare tutti gli interventi sanitari praticati sulle persone di Ben Slama e di Souiden e tutti i medici che li hanno effettuati e, con una certa approssimazione, anche gli orari. Quel che è certo è che la Cazzato nei suoi turni del 24 novembre (ore 20.00-8.00), 26 novembre (ore 8.00-14.00), 27 novembre (ore 14.00-20.00) e del 28 novembre (ore 8.00-14.00), unici turni effettuati nei giorni oggetto del processo, non ha mai visitato Ben Slama e Souiden, né ha mai prescritto o somministrato alcuna terapia. L’affermazione è confortata dalla analisi dettagliata della documentazione e del registro citato, dove con minuziosa cura i medici di turno avevano l’obbligo e l’abitudine di annotare qualsiasi intervento effettuato. Non si comprende, pertanto, come la Cazzato abbia potuto in un giorno in cui non era presente in ambulatorio accertare le condizioni dei pazienti e addirittura refertarne le lesioni, tutto ciò senza aver cura di redigere alcuna annotazione nel registro degli interventi, come sempre, invece, accadeva. pag. 32 Peraltro, la circostanza che la dottoressa non fosse al C.T.P. il 23 novembre 2002 è rilevabile non solo dal registro, ma anche dall’elenco della turnazione del mese di novembre laddove compare il nome della Cazzato il 21 novembre e successivamente il 24 novembre 2002. Non risulta, inoltre, che i medici restassero in ambulatorio oltre l’orario loro assegnato, né dalla documentazione, né da altre emergenze dibattimentali. Al contrario vi è conferma del rispetto dell’orario del turno dalla deposizione del dott. Vincenzo Refolo il quale riferisce, nel corso del controesame dell’avv. Conte, che non gli era mai accaduto di prestare la propria opera oltre l’orario di lavoro, né gli risulta che altri medici lo facessero, poiché vi era un preciso meccanismo di avvicendamento tra medici e infermieri; alla scadenza dell’orario di turno un medico andava via e sopraggiungeva l’altro. Le dichiarazioni rese dalla Cazzato in sede di interrogatorio – verbale acquisito a norma dell’art. 513 c.p.p. – non sono riscontrate da alcuna emergenza probatoria. Ella riferisce di essersi recata al “Regina Pacis” nella serata del 23 novembre, sicuramente dopo le ore 20.00, poiché da una conversazione telefonica con il dott. Antonaci aveva appreso della fuga di numerosi cittadini marocchini trattenuti. Riferisce l’imputata: “Luca Lodeserto mi pregò di redigere tre referti, senza spiegarmi il motivo di tale richiesta. Io non chiesi nulla in proposito e mi limitai a visitare i tre stranieri, in quanto come medico del servizio sanitario non potevo rifiutare di prestare la mia attività e di redigere obbligatoriamente il relativo referto. Provai a gesti a chiedere agli stranieri visitati come si erano fatti male e ottenni in risposta altri gesti che mi fecero intendere che si erano lanciati dall’alto”. Appare decisamente inverosimile che, nonostante la presenza in ambulatorio del medico di turno Roberti, Luca Lodeserto abbia chiesto proprio alla Cazzato di redigere tre referti senza fornire alcuna spiegazione che giustificasse la richiesta al medico che in quel momento non era di turno. Del resto lo stesso Roberti nel corso del proprio interrogatorio dichiara di non ricordare la presenza in quella serata della collega. Peraltro, in quanto medico del servizio sanitario avrebbe dovuto, qualora fosse stato necessario visitare i pazienti, dirottare la richiesta al medico presente in ambulatorio che avrebbe così dovuto annotare l’intervento sul registro in dotazione. Invece, al Roberti non veniva chiesto né di visitare i pazienti, né di redigere con riferimento a Souiden ed a Ben Slama alcun referto. La vicenda appare ancor più strana se si pensa che non vi era alcuna motivazione logica per cui dovessero essere redatti referti di due pazienti per i quali era stata formata una copiosa documentazione sanitaria perché entrambi ricoverati in ospedale. Le dichiarazioni della Cazzato appaiono, peraltro, inverosimili nella parte relativa al momento in cui riferisce di aver chiesto “a gesti” ai cittadini marocchini la causa delle lesioni. Ben Slama e Souiden non hanno mai dichiarato di essersi fatti male a causa del lancio; al contrario, appena è stato possibile hanno tentato di far presente a chi prestava loro soccorso che le lesioni erano la conseguenza delle “botte” ricevute (significativa la deposizione del dott. Turco, già esaminata). Non si comprende, pertanto, come sia stato possibile che proprio alla Cazzato, dalla quale i predetti cittadini pag. 33 marocchini non hanno mai riferito di essere stati visitati, non abbiano ritenuto di raccontare quanto fosse realmente accaduto. Tutta la vicenda si fa ancora più oscura se si ha riguardo alle altre certificazioni ed alle dichiarazioni del Roberti. L’incongruenza più evidente è quella relativa alle certificazioni attestanti le lesioni riportate da Agrebi Baligh, Aidi Mahjoub e Adwani Jamel. I predetti trattenuti erano riusciti a fuggire dal Centro nella serata del 21 novembre ed erano stati rintracciati solo in data 25 novembre 2002. Il dato è sufficiente per ritenere la falsità dei certificati: non è possibile, infatti, che il dott. Roberti conoscesse le lesioni riportate da Agrebi, Aidi e Adwani in un momento in cui questi non erano stati ancora rintracciati e che, quindi, non erano ancora stati riportati nel centro; non è possibile che il Roberti li avesse visitati accertando personalmente le lesioni riportate, peraltro descritte dettagliatamente. Dunque, il Roberti ha falsamente attestato la verifica delle condizioni di salute e le cause delle stesse. È evidente, invece, che i certificati siano stati redatti solo in un momento successivo, insieme a tutti gli altri. Proprio con riferimento agli altri certificati è appena il caso di sottolineare che il Roberti nel proprio turno del 23 novembre ha solo somministrato la terapia ansiolitica ed antinfiammatoria a Louro nel corso della notte, ma non ha mai visitato nessuno degli altri ospiti per cui ha ritenuto di sottoscrivere i certificati datati 23.11.02. Egli, nel corso del proprio interrogatorio in data 11 luglio 2003, dopo gli avvertimenti prescritti dalla legge, richiama e conferma per intero le dichiarazioni rese quale persona informata in data 31 gennaio 2003 – alla cui acquisizione la Difesa non ha formalizzato alcuna opposizione evidentemente condividendo che trattavasi di parte integrante del verbale di interrogatorio – e aggiunge altri particolari e spiegazioni. Afferma di aver ricevuto esplicita richiesta di redazione dei certificati in questione da don Cesare Lodeserto; queste le sue parole: “confermo che le persone per le quali sono state fatte le certificazioni mi sono state espressamente indicate da don Cesare. Tali indicazioni come ho già detto sono avvenute in tempi diversi e senza che don Cesare mi spiegasse i motivi per cui mi chiedeva di redigere le stesse. Ad ogni richiesta, in realtà, non ho preparato un vero e proprio certificato ma degli appunti manoscritti che poi ho passato tutti insieme all’ufficio della direzione per la dattiloscrittura … Preciso che negli appunti manoscritti ho inserito la clausola relativa alla causale delle lesioni per uno solo degli stranieri (il primo da me visitato di cui non ricordo il nome), perché così don Cesare mi aveva chiesto di fare”. Aggiunge e precisa che le visite agli stranieri e le relative certificazioni – o indicazioni manoscritte delle patologie – sono avvenute tra il 23 e il 26 novembre (“penso di non aver redatto alcun certificato in data 22 novembre … i referti che ho rilasciato dovrebbero essere datati 23.11.02, altri nei giorni a seguire, non oltre i 26 novembre”). Il dato documentale, tuttavia, non conforta le dichiarazioni del medico. Egli, infatti, è stato in servizio, oltre al turno del 22 novembre nel corso del quale afferma di non aver redatto certificati, in data 23 novembre 2002 dalle ore 20.00 alle ore 8.00 del giorno successivo e nei giorni 28 e 29 novembre. Non ha pag. 34 mai prestato servizio nei giorni compresi tra il 24, dalle ore 8.00 del mattino, ed il 28 novembre. Dunque, non si comprende come abbia potuto affermare di aver visitato i pazienti quando, non solo non era in servizio, ma anche non si è curato di riportare alcuna annotazione sul registro dell’ambulatorio, normalmente così accuratamente e minuziosamente compilato. Nel periodo dallo stesso indicato egli ha visitato solo Louro Anis, ma mai gli altri cittadini marocchini per cui gli è stata richiesta attestazione. Si contraddice, peraltro, anche quando prima afferma di essersi avvalso autonomamente del computer (“i referti da me sottoscritti risultano eccezionalmente redatti al computer in quanto, per l’enorme mole di lavoro che c’era in quei giorni, ho ritenuto di scriverla su supporto magnetico, stamparla e sottoporla in visione al Direttore che me le aveva chieste”) e, successivamente, di aver compilato solo appunti manoscritti affidandoli successivamente alla direzione per la dattiloscrittura (“ad ogni richiesta, in realtà, non ho preparato un vero e proprio certificato ma degli appunti manoscritti che ho poi passato tutti insieme all’ufficio della direzione per la dattiloscrittura”). In conclusione, le varie ammissioni, pur se maldestramente corredate di motivazione, inducono su un piano di prima evidenza che la data apposta su ogni certificato non corrisponda né al giorno in cui i referti sono stati compilati, né a quello in cui entrambi i medici hanno accertato le condizioni patologiche che attestavano, pur ammettendo in astratto, e così non è sicuramente, che tale accertamento sia stato effettuato. Essi, non solo non hanno visitato i pazienti, ma hanno assecondato una dubbia richiesta proveniente dalla direzione di certificare fatti mai verificati, spingendosi ad affermare un nesso di causalità, assolutamente non riscontrato, tra il comportamento dei pazienti (lancio dal piano sopraelevato) e le lesioni riportate. Il tentativo del consulente di parte, dott. Simonetti, di affermare che le lesioni repertate fossero compatibili con una caduta è fallito allorquando il medico legale è stato escusso in dibattimento. Egli, non potendo visitare le persone offese, ma limitandosi ad una mera consulenza di scienza sulla documentazione fornitagli dalla Difesa (è appena il caso di precisare che si tratta in prevalenza dei documenti oggetto dell’imputazione di falso ideologico), ha concluso per la compatibilità delle lesioni con la caduta dall’alto, senza comunque escludere l’incidenza di altre cause (azioni volontarie violente commesse ai loro danni). Nel corso del dibattimento, tale seconda possibilità è stata notevolmente allargata, poiché ad ogni domanda dettagliata in ordine alle lesioni riportate dalle persone offese il consulente non ha potuto escludere un giudizio di piena compatibilità con le percosse. Del resto la circostanza della distanza di appena sei metri dalla balconata al punto di caduta e della presenza sotto il predetto balcone di un automezzo – che evidentemente accorciava la distanza di sei metri – rende inverosimile che le lesioni come refertate fossero davvero tutte conseguenze del lancio. L’insieme delle emergenze istruttorie e tutte le considerazioni fin qui svolte inducono ad un giudizio di sussistenza del reato di falso sotto diversi profili: la data pag. 35 non corrisponde alla realtà; i medici imputati non hanno accertato personalmente quanto attestato; in tre casi vi è certamente una macroscopica alterazione della realtà; il giudizio formulato con riferimento alla causa delle lesioni non è sicuramente derivante da dichiarazioni dei pazienti, bensì da autonome, o indotte (non certo dai lesionati), valutazioni assolutamente stridenti con i reali accadimenti che hanno visto i cittadini marocchini soggetti passivi di inaudite e ingiustificate violenze. La disposizione di cui all’art. 479 c.p. punisce la condotta del “pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. Non c’è dubbio che i medici Cazzato e Roberti rivestissero la qualità di pubblici ufficiali. È stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità che “i medici dipendenti da strutture sanitarie pubbliche, pur se equiparati, per effetto del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, a quelli dipendenti da strutture private quanto alle modalità di esercizio dell’attività lavorativa ed al sistema retributivo, hanno tuttavia conservato la qualità di pubblici ufficiali nell’attuazione del loro servizio e nella connessa potestà certificativi”. Ne consegue che il medico che attesti in un certificato circostanze non vere pone in essere la condotta sanzionata dal citato art. 479. Il certificato in questione, infatti, è qualificabile sicuramente in termini di atto pubblico e non di certificato amministrativo. Invero è certificato amministrativo, con la conseguente operatività della norma contenuta nell’art. 481 c.p., l’atto del pubblico ufficiale che non attesti risultati di un accertamento compiuto dal medesimo, ma che si limiti a riporti informazioni desunte da altri atti già documentati e che non abbia una propria autonomia giuridica, ma che si limiti a riprodurre gli effetti dell’atto preesistente (ex plurimis Cass. pen., V sez., n. 2029/02). Ne consegue che costituiscono atti pubblici quei certificati con i quali il pubblico ufficiali attesti di aver compiuto un determinato accertamento riferendone i risultati. È evidente che il certificato in cui il medico attesti una patologia, rilevabile solo attraverso un diretto accertamento, è qualificabile solo in termini di atto pubblico (cfr. Cass. pen., sez. V, n. 3190/02; sez. V, n. 10113, sez. I 11.10.94). Definiti, dunque, la qualifica del medico e la qualificazione del certificato da lui redatto, deve concludersi che qualsiasi colpevole mutazione della verità integri la condotta prevista e punita dall’art. 479 c.p. Non può dubitarsi che il medico che certifichi di aver operato un accertamento, che in effetti non ha compiuto, indicando una patologia, che non ha rilevato personalmente, specificandone la causa, quando tale specificazione possa derivare solo da dichiarazioni del paziente che questi non ha mai reso, alterando altresì la data del presunto accertamento, quando è certo che nella stessa data quel medico non è proprio venuto in contatto con il paziente, pone in essere la condotta penalmente rilevante di falsità ideologica. pag. 36 Del resto, sono gli stessi medici imputati a riferire nel corso dei rispettivi interrogatori di aver ricevuto l’ordine di redigere i certificati delle persone che avevano riportato lesioni da parte del don Cesare Lodeserto e del nipote Luca Lodeserto. È evidente che la finalità perseguita è quella correttamente evidenziata dal Pubblico Ministero nell’ipotesi di accusa e prima esposta. Tuttavia, il concorso nel reato dei Lodeserto non è suffragata sul piano strettamente processuale della formazione della prova. Le dichiarazioni dei medici, infatti, pur chiarendo il ruolo rivestito dal direttore e da “Luca” e la finalità complessiva perseguita, anche alla luce dell’intera vicenda, non sono sufficienti a ritenere, in base ai criteri codicistici di valutazione delle emergenze istruttorie, completa la prova. Essi, infatti, pur avendo ricevuto all’atto dell’interrogatorio gli avvisi previsti dall’art. 64 comma 3 c.p.p., non si sono sottoposti all’esame nel contraddittorio del dibattimento, privando le altre parti di saggiare la deposizione secondo il meccanismo del controesame. Tale circostanza, in ossequio al principio costituzionale enunciato nell’art. 111 comma 4 Cost., rende inutilizzabile il contenuto delle dichiarazioni nei confronti di altri imputati e, dunque, di Lodeserto Cesare e Lodeserto Giuseppe, nei confronti dei quali l’unica decisione possibile rimane quella assolutoria per non aver commesso il fatto. 3. Trattamento sanzionatorio Accertata la sussistenza dei delitti avuto riguardo ai criteri ermeneutici fissati dall’art. 133 c.p., si ritiene di determinare la pena da infliggere agli imputati nella misura di seguito specificata. A Lodeserto Cesare è inflitta la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione così determinata: pena base per il delitto di cui all’art. 610 c.p. nei confronti di tutte le persone offese (40 e 610 c.p.) anni uno e mesi sei di reclusione, ridotta ad anni uno di reclusione ex art. 62 bis c.p., aumentata ex art. 81 c.p. di mesi quattro di reclusione per il delitto di lesioni nei confronti di tutte le persone offese (40, 582 c.p.). A Lodeserto Giuseppe, detto Luca e Vieru Natalia, detta Natasha, è inflitta la pena di anni uno e mesi due di reclusione così determinata: pena base per il delitto di violenza privata nei confronti di tutte le persone offese indicate in rubrica anni uno e mesi tre di reclusione, ridotta ex art. 62 bis c.p. a mesi dieci di reclusione aumentata ex art. 81 c.p. di mesi quattro di reclusione per il delitto di lesioni nei confronti di tutte le persone offese. La pena è differenziata rispetto al primo imputato avuto riguardo alla minore gravità della condotta, stante il diverso ruolo nella organizzazione, ed è comunque superiore rispetto agli altri operatori dal momento che le emergenze istruttorie hanno fatto emergere una maggiore crudeltà e capacità delittuosa in Luca e Natasha rispetto agli altri operatori. A Dokaj Paulin, detto Paolo, Gozlugol Husevin, Mara Armando e Sen Ramazan è inflitta la pena di mesi nove di reclusione così determinata: pena base per il delitto di violenza privata nei confronti di tutte le persone offese mesi nove di reclusione, ridotta ex art. 62 bis c.p. a mesi sei di reclusione, aumentata ex art. 81 c.p. per le lesioni di mesi tre di reclusione. pag. 37 A D’Ambrosio Francesco e Ottomano Vito è inflitta la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione così determinata: pena base per il delitto di cui all’art. 610 c.p. nei confronti di tutte le persone offese (40 e 610 c.p.) anni uno e mesi sei di reclusione, ridotta ad anni uno di reclusione ex art. 62 bis c.p., aumentata ex art. 81 c.p. di mesi quattro di reclusione per il delitto di lesioni nei confronti di tutte le persone offese (40, 582 c.p.). Le modalità particolarmente crudeli delle condotte tenute dai predetti giustificano una maggiore gravità del trattamento sanzionatorio rispetto a quello riservato agli altri militari. Ad Alberga Vito, Coscia Michele, Di Pierro Mario, Fumarola Giovanni e Mele Vito è inflitta la pena di anni uno di reclusione così determinata: pena base per il delitto di cui all’art. 610 c.p. nei confronti di tutte le persone offese (40 e 610 c.p.) anni uno e mesi tre di reclusione, ridotta a mesi dieci di reclusione ex art. 62 bis c.p., aumentata ex art. 81 c.p. di mesi due di reclusione per il delitto di lesioni nei confronti di tutte le persone offese (40, 582 c.p.). Lo stato di incensuratezza degli imputati consente l’attenuazione di pena discendente dal riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Si è ritenuto, inoltre, di applicare la disciplina prevista dall’art. 81 comma 2 c.p. trattandosi di fatti commessi in esecuzione del medesimo intento delittuoso. Si coglie con la massima evidenza il programma criminoso ideato ed attuato in accordo dagli imputati. Come si è detto, infine, è risultata pienamente provata la responsabilità dei medici Cazzato e Roberti. Pertanto, avuto riguardo ai criteri ermeneutici previsti dall’art. 133 c.p., ritenuta sussistente l’aggravante contestata per tutti i motivi ampiamente esposti, operato un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla predetta aggravante, la pena si determina in nove mesi di reclusione (pena base anni uno di reclusione – falso certificato di Ben Slama –ridotta di 1/3 per le attenuanti generiche, complessivamente aumentata di un mese di reclusione per tutti gli altri certificati). L’incensuratezza degli imputati e la necessità di adeguare la misura della pena ai fatti impongono il riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. ed il giudizio di prevalenza. Infine, in virtù del disposto dell’art. 535 c.p.p., devono essere poste a carico di tutti i condannati le spese processuali. Sussistono per tutti gli imputati i presupposti di legge per il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena. 4. Domanda risarcitoria L’accertata sussistenza del fatto ai danni delle costituite parti civili comporta che la domanda risarcitoria debba essere accolta, avuto riguardo alla circostanza che è risultato provato che gli imputati si sono resi sicuramente responsabile dell’episodi loro contestati, fatta eccezione per le condotte illecite nei confronti di Agrebi, Aidi e Haddaji che non sono risultate provate. pag. 38 Accoglibile anche la domanda risarcitoria, seppur con condanna generica, dell’Associazione Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) per le motivazioni già esposte nell’ordinanza emessa all’udienza del 13 maggio 2004 che qui si intendono riportate. Gli elementi addotti dalle difese delle parti civili non hanno consentito, tuttavia, di determinare una quantificazione certa del danno patito, che pertanto sarà cura delle medesime parti richiedere e provare con le modalità di legge al giudice civile competente. Peraltro, ai fini della pronuncia della condanna generica al risarcimento dei danni, non è necessario che il danneggiato provi l'effettiva sussistenza dei danni e il nesso di causalità tra questi e l'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, in quanto la pronuncia di condanna costituisce una mera declaratoria iuris da cui esula ogni accertamento sull'esistenza e misura del danno, rimesso per la liquidazione ad apposito giudizio. Si ritiene, comunque, che per quanto riguarda le parti civili costituite – con l’eccezione, come già specificato, per Agrebi, Aidi e Haddaji – che alle stesse possa essere riconosciuta una provvisionale pari a euro 2000 ciascuna. Non incombe l’obbligo di espressa motivazione (“in tema di provvisionale, la determinazione della somma assegnata è riservata insindacabilmente al giudice di merito, che non ha l'obbligo di espressa motivazione, quando l'importo rientri nell'ambito del danno prevedibile” Cass. pen., Sez. VI, 01/04/1997, Bosco) sulla quantificazione poiché “in tema di risarcimento del danno derivante da reato, non è necessaria, ai fini della liquidazione della provvisionale, la prova dell'ammontare del danno stesso, ma è sufficiente la certezza della sua sussistenza sino all'ammontare della somma liquidata” (Cass. pen., Sez. V, 13/12/2000, n. 12634, Bechis). Non si ritiene, invece, che possa essere quantificata in questa sede, neanche a titolo di provvisionale, alcuna somma di denaro all’ASGI. L’accoglimento delle domande risarcitorie comporta la condanna degli imputati alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza alle parti civili, come liquidate in dispositivo. P.Q.M. letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara LODESERTO Cesare colpevole dei reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., unificati ai sensi dell’art. 81 c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, LODESERTO Giuseppe (detto Luca), VIERU Natalia (detta Natasha), DOKAJ Paulin (detto Paolo), eccezion fatta per gli episodi ai danni di Agrebi e Aidi, GOZLUGOL Husevin, eccezion fatta per l’episodio ai danni di Tarconni, MARA Armando e SEN Ramazan colpevoli dei reati di cui agli artt. 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., unificati ai sensi dell’art. 81 c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, D’AMBROSIO Francesco, ALBERGA Vito, OTTOMANO Vito, COSCIA Michele, MELE Vito, DI PIERRO Mario e FUMAROLA Giovanni colpevoli dei reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., unificati ai sensi dell’art. 81 c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in pag. 39 rubrica e, in concorso di attenuanti generiche per tutti gli imputati ritenute equivalente alle aggravanti contestate, condanna LODESERTO Cesare alla pena anni uno e mesi quattro di reclusione, LODESERTO Giuseppe, VIERU Natalia alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, DOKAJ, GOZLUGOL, MARA e SEN alla pena di mesi nove di reclusione, D’AMBROSIO e OTTOMANO alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, ALBERGA, DI PIERRO, FUMAROLA e COSCIA alla pena di anni uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara ROBERTI Giovanni e CAZZATO Anna Catia colpevoli del reato loro ascritto e, in concorso di attenuanti generiche, condanna ciascuno alla pena di mesi nove di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Pena sospesa alle condizioni di legge per tutti gli imputati. Letto l’art. 530 c.p.p., assolve tutti gli imputati in ordine ai reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, con riferimento agli episodi relativi ad HADDAJI Mohammed, perché il fatto non sussiste. Letto l’art. 530 c.p.p., assolve LODESERTO Cesare e DOKAJ Paulin dai reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, con riferimento agli episodi relativi ad Agrebi Baligh e Aidi Manjoub per non aver commesso il fatto. Letto l’art. 530 cpv c.p.p., assolve D’EPIRO Alessandro, BLASI Francesco e CASAFINA Antonio dai reati di cui agli artt. 40, 110, 610, 582 e 585, in relazione agli artt. 577 e 61 n. 4 c.p., così diversamente qualificati i fatti come descritti e contestati in rubrica, per non aver commesso il fatto. Letto l’art. 530 c.p.p., assolve LODESERTO Cesare e LODESERTO Giuseppe dal reato loro ascritto al capo B della rubrica per non aver commesso il fatto. Letti gli artt. 538 e ss c.p.p., condanna LODESERTO Cesare, LODESERTO Giuseppe (detto Luca), VIERU Natalia (detta Natasha), DOKAJ Paulin (detto Paolo), GOZLUGOL Husevin, MARA Armando e SEN Ramazan, D’AMBROSIO Francesco, ALBERGA Vito, OTTOMANO Vito, COSCIA Michele, MELE Vito, DI PIERRO Mario e FUMAROLA Giovanni al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite, fatta eccezione per Haddaji Mohammed, e con esclusione di Agrebi Baligh e Aidi Manjoub con esclusivo riferimento a Lodeserto Cesare e Dokaj Paulin, da liquidarsi in separato giudizio. Condanna gli imputati al pagamento di una provvisionale pari a € 2000 per ogni parte civile costituita, eccezion fatta per l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). Pone a carico degli imputati le spese di costituzione e rappresentanza delle parti civili che liquida in euro 5000 per la parte civile assistita dall’Avv. Pistelli, euro 7000 per le parti civili assistite dall’Avv. Petrelli, euro 15000 per le parti civili assistite dall’Avv. Petrelli, oltre IVA, CA e spese forfetizzate come per legge. Letto l’art. 544 comma 3 c.p.p., indica in novanta giorni il termine per il deposito della motivazione. Lecce, 22 luglio 2005 |
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