IL GOLPE BORGHESE E L’ASSASSINIO DI MAURO DE MAURO

IL GOLPE BORGHESE E L’ASSASSINIO DI MAURO DE MAURO.STORIA DI UN’INCHIESTA GIORNALISTICA CENSURATA SULLE TRAME EVERSIVE DEL “PRINCIPE NERO”
L’ALLEANZA CON COSA NOSTRA E LA NOTTE DI “TORA-TORA” DEL 7 DICEMBRE 1970
SAVERIO FERRARI  -  OSSERVATORIO DEMOCRATICO  -  21/06/2004

IL GOLPE BORGHESE
E L’ASSASSINIO DI MAURO DE MAURO
STORIA DI UN’INCHIESTA GIORNALISTICA CENSURATA
SULLE TRAME EVERSIVE DEL “PRINCIPE NERO”

L’ALLEANZA CON COSA NOSTRA
E LA NOTTE DI “TORA-TORA” DEL 7 DICEMBRE 1970

Camillo Arcuri ha lavorato per molti anni come inviato speciale al “Giorno”, in seguito al “Corriere della Sera” e per l’”Espresso”. Nei primissimi giorni del settembre del 1969, ritrovandosi all’improvviso per le mani un assai circostanziato rapporto di un ufficiale dei Carabinieri, fattogli pervenire riservatamente dall’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia On. Francesco Cattanei, sulle manovre di Junio Valerio Borghese in favore di un sovvertimento violento delle istituzioni democratiche, si impegnò in un’approfondita indagine giornalistica.
Verificò la fondatezza delle riunioni segrete tenutesi anche in Liguria con la partecipazione di non pochi esponenti del mondo industriale e finanziario genovese, l’esistenza di un organigramma golpista ed il coinvolgimento di settori delle forze armate. Giunse altresì alla convinzione che la notizia di questa minaccia circolasse già da tempo, pur in ambiti governativi assai ristretti. Scrisse un primo articolo, in forma alquanto prudente e dubbiosa, e lo propose alla redazione del suo giornale, “Il Giorno”. Nonostante diversi tentativi non riuscì mai a pubblicarlo. Solo tre mesi dopo, il 12 dicembre, scoppiavano a Milano le bombe di Piazza Fontana che a quel progetto eversivo si ricollegavano direttamente. E’ questo l’inizio di una vicenda, scritta quasi in forma di diario personale, che Camillo Arcuri ha deciso, più di tre decenni dopo, di raccontare riguardo uno degli episodi più sottovalutati e volutamente sminuiti del secondo dopoguerra come il “golpe Borghese” (Camillo Arcuri “Colpo di Stato” BUR Edizioni, 8 euro).

LA NOTTE DELLA MADONNA

Il tentativo di colpo di Stato promosso da Junio Valerio Borghese, più volte rinviato, scattò effettivamente fra il 7 e l’8 dicembre del 1970, nella cosiddetta notte dell’”Immacolata”. Rientrò quando ormai i congiurati erano entrati in azione. Per averne conoscenza si dovette aspettare un anno e mezzo, fino al 17 marzo 1971, quando l’edizione serale di “Paese Sera” strillò la notizia in prima pagina. Nel piano denominato “Tora-Tora” (dal nome in codice dell’attacco giapponese a Pearl Harbour) i golpisti avrebbero dovuto simultaneamente assaltare il Quirinale, i ministeri degli Interni e della Difesa, la sede della RAI-TV, per poi prendere possesso delle Prefetture nel resto d’Italia. Un brivido ed un forte allarme percorsero il paese. Seguirono inevitabilmente interrogazioni al governo e polemiche accese. Junio Valerio Borghese riparò frettolosamente in Spagna. Dai documenti declassificati della CIA (in parte recentemente pubblicati nel libro di Nicola Tranfaglia “Come nasce la Repubblica”, Bompiani editore), ora finalmente sappiamo che il “comandante” della Decima MAS in realtà aveva deciso di passare nelle fila degli americani addirittura ancor prima della fine del secondo conflitto mondiale. Protetto personalmente dal colonnello Angleton, responsabile dei servizi segreti militari USA in Italia, venne sottratto nell’aprile del 1945 ai partigiani e fatto passare pressoché indenne nei processi per collaborazionismo cui venne sottoposto. Ricambiò mettendo a disposizione squadre di reduci della Decima MAS per operazioni “coperte” fin dall’immediato dopoguerra. La prima “azione”, unitamente a mafiosi e ai banditi di Salvatore Giuliano, fu a Portella delle Ginestre il 1° maggio del 1947, dove una pattuglia di ex-fascisti legati al “Principe Nero” sparò su una folla di contadini, uccidendo 11 persone.
La Corte d’Assise di Roma ricostruì il colpo di Stato del 1970 in modo assai riduttivo, grazie soprattutto al ruolo svolto dal PM Claudio Vitalone. Si escluse che il piano avesse carattere nazionale, come anni dopo invece appurò pienamente la magistratura. Il golpe fu definito “velleitario”, nonostante esponenti di Avanguardia Nazionale fossero penetrati fin dentro l’armeria del Ministero degli Interni. Si evitò di collegare fra loro i diversi progetti eversivi e soprattutto si lasciò nel buio più completo i rapporti con settori delle Forze Armate ed il ruolo giocato dai servizi segreti. Il delitto di insurrezione armata contro lo Stato venne fatto cadere. In appello l’assoluzione fu definitiva e generale. La Cassazione non si tenne nemmeno. Il Procuratore Generale non presentò infatti alcun ricorso. Junio Valerio Borghese, dal canto suo, morì da latitante in Spagna nel 1974 in circostanze mai chiarite, forse avvelenato, come sostennero i fedelissimi.

MAURO DE MAURO

Camillo Arcuri ha deciso di ripercorrere oggi questa vicenda dopo la scoperta, avvenuta solo nel gennaio 2001, dei veri motivi che avrebbero portato la sera del 16 settembre 1970 al rapimento e alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, redattore de “L’Ora” di Palermo.
Un pentito di mafia, Francesco Di Carlo, padrino di Altofonte, ha infatti deciso di raccontare alla magistratura che la ragione dell’eliminazione del giornalista andava ricercata nelle rivelazioni che De Mauro si accingeva a pubblicare sull’imminente golpe Borghese, in particolare sull’alleanza tra fascisti e Cosa Nostra. Una ricostruzione che si è aggiunta alle deposizioni precedenti di Luciano Liggio e Gaspare Mutolo, ancor prima di Tommaso Buscetta ed altri, che per primi avevano parlato del piano insurrezionale. Tutt’altro che una “baggianata”, come dissero, con incontri, per il controllo del Sud, direttamente con Borghese da parte della “cupola” mafiosa e addirittura a Roma con Maletti e Miceli, cioè i vertici del SID. In cambio dell’appoggio i mafiosi avrebbero avuta garantita la revisione dei processi.
De Mauro si apprestava a rivelare tutto. Questo il vero scoop della sua vita e non tanto le indagini sul sabotaggio dell’aereo di Enrico Mattei, il presidente dell’ENI, partito da Catania e precipitato il 27 ottobre del 1962. Mauro De Mauro fu strangolato ed il suo cadavere occultato, forse in una fossa alla foce dell’Oreto. I due giornalisti, l’uno all’insaputa dell’altro, avevano dunque raccolto notizie sulla stessa trama eversiva. Non riuscirono mai a pubblicare nulla. Ad ambedue, in modi diversi, fu tappata la bocca. Anche per questo “il recente passato – come sostiene Arcuri - non si può considerare chiuso”.
 

 IL CASO DE MAURO

Mercoledi 16 settembre 1970. Sono da poco passate le 21.Mauro De Mauro é un cronista del quotidiano l'Ora di Palermo. Sta lavorando da mesi alla sceneggiatura del film "Il caso Mattei" del regista Francesco Rosi. De Mauro sta per rientrare nella sua abitazione di via delle Magnolie, in un quartiere residenziale del capoluogo siciliano. Una delle sue figlie vede tre uomini salire sulla Bmw del giornalista. Il guidatore accelera in modo brusco, poi si allontana ad alta velocità. 

A un chilometro da via delle Magnolie viene ritrovata la vettura di Mauro De Mauro. Gli investigatori frugano nella Bmw e in uno scomparto interno recuperano degli appunti relativi ad una speculazione edilizia. Ora le inchieste e i servizi di Mauro attraggono l'attenzione degli investigatori. Nel tentativo di trovare la pista giusta che porti al suoi rapitori, si ricostruisce la sua personalità. 

Qualcosa di grosso. Poco prima di sparire, Mauro De Mauro indaga sugli ultimi due giorni di vita del Presidente dell'Eni Enrico Mattei. Lo riferisce all'editore e libraio Fausto Fiaccovio, lo confida a un'amica, ne accenna alla figlia Junia, ne parla con il collega dell'Ansa Lucio Galluzzo a cui dice che si sta occupando "di un soggetto per un film di Francesco Rosi". E poi aggiunge: "E' roba da far tremare l'Italia". 

Elda De Mauro, la moglie di Mauro intanto non si da pace. Mauro non ritorna a casa e a diciassette giorni dal suo rapimento ricorda un fatto lontano nel tempo, un particolare mai rivelato..... 
Alle indagini si interessano tre investigatori, tutti uccisi tra il 1979 e il 1982: il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, il commissario della mobile Boris Giuliano e il comandante della legione dell'Arma Carlo Alberto dalla Chiesa. Le piste sono comunque divergenti. Secondo i carabinieri, De Mauro avrebbe scoperto un traffico di droga internazionale e per questo sarebbe stato eliminato dalla mafia. L'ipotesi viene sostenuta dal pentito Gaspare Mutolo, secondo cui De Mauro venne strangolato da killer di Stefano Bontate, il capo della "mafia perdente", 

La polizia punta dritta alla "pista Mattei". Il cassetto della sua scrivania nella redazione dell'Ora di Palermo risulta forzato. Non si trovano più nastri magnetici, dal bloc-notes con gli appunti sono state strappate due pagine e mancano anche altri fogli più recenti che riguardano gli incontri avuti nella preparazione della sceneggiatura del film "Il caso Mattei" di Francesco Rosi. C'è un sospetto forte, un'ipotesi che non sarà mai approfondita. In quel nastro e in quei fogli potrebbe esserci la soluzione di due gialli: la morte di Enrico Mattei e la scomparsa di Mauro De Mauro. 

Il caso De Mauro non è ancora chiuso. Il pubblico ministero di Palermo Giusto Sciacchitano propone l'archiviazione dell'inchiesta ma il giudice istruttore dello stesso tribunale, Giacomo Conte, l'8 aprile 1991, chiede alla Procura un supplemento di indagine:vuole appurare "il ruolo della mafia e i suoi collegamenti con i poteri occulti, l'estremismo di destra, i servizi segreti e la massoneria". Secondo il giudice palermitano, "ci sono elementi di prova che portano a Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone quali autori del sequestro De Mauro nell'ipotesi che il sequestro sia stato fatto da qualcuno per bloccare l'inchiesta dei giornalista sulla fine di Mattei". 

Sul "caso De Mauro" il pentito Tommaso Buscetta si rivolge al giudice Giovanni Falcone: "Della morte dei giornalista Mauro De Mauro non so nulla. Non è faccenda di mafia. Quando ne parlavo con i miei interlocutori, questi sembravano stupiti. Ho sentito dire in giro che la sua scomparsa è legata alla morte di un noto politico italiano, credo che si chiamasse Enrico Mattei". 

Il punto centrale della morte di Mauro De Mauro resta l'incarico che il regista Francesco Rosi gli offre: la sceneggiatura del film "Il Caso Mattei". E' lì che si concentra il buco nero della sua sparizione. Cosa poteva avere scoperto De Mauro sugli ultimi giorni di vita del Presidente dell'Eni, Enrico Mattei? 

a cura di Daniele Biacchessi
AVVERTENZA: La relazione Pellegrino non va letta come una sorta di maxi-sentenza definitiva, ma soltanto come <<la formulazione di un giudizio storico-politico globale>>. Come ogni analisi storico-politico essa è comunque soggetta a integrazioni e mutamenti.

IL GOLPE BORGHESE 
Nell’analisi della Commissione Stragi (relazione Pellegrino)

Può ritenersi ormai certo che nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 si attivò in Roma un tentativo di vero e proprio colpo di Stato, che tuttavia durò soltanto poche ore e fu subito interrotto ben prima che si raggiungesse uno stato insurrezionale. In merito può ormai ritenersi sufficientemente accertato che: 

 a) Un gran numero di uomini era stato raccolto e organizzato da Junio Valerio Borghese sotto la sigla Fronte Nazionale in stretto collegamento con Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. 

b) Sin dal 1969 il Fronte Nazionale aveva costituito gruppi clandestini armati e aveva stretto relazioni con settori delle Forze Armate. 

c) Borghese stesso, con la collaborazione di altri dirigenti del Fronte Nazionale e di numerosi alti Ufficiali delle Forze Armate e funzionari di diversi Ministeri, aveva predisposto un piano, che prevedeva l'intervento di gruppi armati su diversi obiettivi di alta importanza strategica; sin dal 4 luglio 1970 era stata costituita una "Giunta nazionale". Avrebbero dovuto essere occupati il Ministero degli Interni, il Ministero della Difesa, la sede della televisione e gli impianti telefonici e di radiocomunicazione; gli oppositori (e cioè gli esponenti politici dei diversi partiti rappresentanti in Parlamento), avrebbero dovuto essere arrestati e deportati. Il Principe Borghese avrebbe quindi letto in televisione un proclama, cui sarebbe seguito l'intervento delle Forze Armate a definitivo sostegno dell'insurrezione. 

 d) Nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 il piano comincia ad essere attuato, con la concentrazione a Roma di alcune centinaiadi congiurati e con iniziative analoghe in diverse città:

1) Militanti di Avanguardia Nazionale, comandati da Stefano Delle Chiaie e con la complicità di funzionari, entrano nel Ministero degli Interni e si impossessano di armi e munizioni che vengono distribuite ai congiurati. 

2) Un secondo gruppo di militanti si riunisce in una palestra, in via Eleniana, ove attende la distribuzione delle armi, che dovrà avvenire a seguito dell'ordine di Sandro Saccucci (un tenente dei paracadutisti stretto collaboratore di Borghese) e a opera del gen. Ricci tra le persone radunate, in parte già in armi, vi sono anche ufficiali dei Carabinieri. 

3) Lo stesso Saccucci (che avrebbe dovuto assumere il comando del SID) dirige personalmente un altro gruppo di congiurati, con il compito di arrestare uomini politici. 

4) Il gen. Casero e il col. Lo Vecchio (i quali garantiscono di avere l'appoggio del Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica, gen. Fanali) dovrebbero invece occupare il Ministero della Difesa. 

5) Il magg. Berti, già condannato per apologia di collaborazionismo e ciò nonostante giunto ad alti gradi del Corpo forestale dello Stato, conduce una colonna di allievi della Guardia forestale, proveniente da Cittàducale presso Rieti, che attraversa Roma e va ad attestarsi non lontano dagli studi RAI-TV di via Teulada. 

6) Il col. Spiazzi (di cui si è già chiarito il ruolo nei Nuclei per la difesa dello Stato) muove con il suo reparto verso i sobborghi di Milano, con l'obiettivo di occupare Sesto San Giovanni, in esecuzione di un piano di mobilitazione reso operativo da una parola d'ordine. 

7) L'insurrezione, già in fase di avanzata esecuzione, fu improvvisamente interrotta. Fu Borghese in persona a impartire il contrordine; ne sono tuttora ignote le ragioni, giacché Borghese rifiutò di spiegarle persino ai suoi più fidati collaboratori. 

Sono questi fatti noti, di cui acquisizioni anche recenti hanno consentito una più ampia ricostruzione e una più approfondita lettura. E tuttavia gli stessi, anche per come percepiti nella immediatezza degli accadimenti, appaiono alla Commissione tali da non giustificarne la valutazione minimizzante che hanno avuto in sede giudiziaria (sentenza Corte d'Assise di Roma 14 novembre 1978 e Corte di Assise di Appello del 14 novembre 1984 che condussero al noto esito globalmente assolutorio) ed anche da gran parte dell'opinione pubblica, apparsa spesso orientata da aspetti velleitari dell'operazione e dallo scarso spessore di molti dei suoi protagonisti, a definire l'episodio come un "golpe da operetta". 

 Per ciò che concerne la valutazione giudiziaria, scarsamente condivisibili appaiono alla Commissione innanzitutto le motivazioni con cui già in sede istruttoria furono prosciolti molti di coloro che si erano radunati, agli ordini del Fronte Nazionale; il proscioglimento fu infatti così motivato: 

"molte persone aderirono al Fronte Nazionale perché illuse e confuse da ingannevole pubblicità... Nei loro confronti non sono state avanzate istanze punitive nella presunzione che l'iscrizione, il gesto isolato e sporadico, il sostegno 'esterno', la convergenza spirituale di per sé rilevano, piuttosto che un permanente legame, un atteggiamento psicologico non incidente sulla 'condizione' processuale degli interessati". 

Indipendentemente dalla fondatezza giuridica di tale dichiarata presunzione, va rilevato che tra le posizioni così archiviate ve ne erano alcune riferibili a soggetti che negli anni successivi compariranno in momenti di rilievo dell'eversione di destra, quali Carmine Palladino, Giulio Crescenzi, Stefano Serpieri, Gianfranco Bertoli (autore della strage di via Fatebenefratelli a Milano), Giancarlo Rognoni, Mauro Marzorati, Carlo Fumagalli, Nico Azzi (autore della tentata strage del 7 aprile 1973 di cui si è già detto). 

Analogamente alcuni dati di fatto - pur non contestati - furono incomprensibilmente svalutati nella decisione della Corte di Assise di primo grado, che accetto le più ridicole giustificazioni di condotte che apparivano ictu oculi di straordinaria gravità (come quella del gen. Berti nell'avere condotto un'intera colonna di militari armati di tutto punto e muniti di manette, acquistate senza autorizzazione ministeriale appena pochi giorni prima, fino a poche centinaia di metri dalla sede della radiotelevisione). 

Esito di tale complessiva lettura minimizzate può ritenersi la finale ricostruzione della vicenda, cui approda la Corte di Assise di Appello romana nella già ricordata sentenza, affermando: 

"che i 'clamorosi' eventi della notte in argomento si siano concretati nel conciliabolo di quattro o cinque sessantenni nello studio di commercialista dell'imputato Mario Rosa, nella adunata semipubblica di qualche decina di persone nei locali della sede centrale del Fronte Nazionale (adunata cui potettero presenziare anche estranei al movimento, e cioè attivisti dell'M.S.I., incaricati dal loro partito di sorvegliare, senza neppure tanta discrezione, le attività di J. V. Borghese e dei suoi seguaci), nel dislocamento di uno sparuto gruppo di giovinastri in una zona periferica e strategicamente insignificante dell'agglomerato urbano, nel concentramento di un imprecisato numero di individui, alcuni certamente armati ma i più sicuramente non molto determinati, nella zona di Montesacro, in un cantiere impiantato dall'impresa di Remo Orlandini, e, da ultimo, nella riunione di cento o duecento persone, fra uomini e donne, senza armi in una palestra gestita dall'associazione paracadutisti nella via Eleniana di Roma". 

Così come analogamente minimizzate appare la valutazione che nella medesima sede viene operata del Fronte Nazionale e del suo organizzatore: 

"La formazione creata e capeggiata da J. V. Borghese, con l'apporto determinante soprattutto di elementi legati, se non politicamente ed ideologicamente, almeno sentimentalmente al fascismo, ed al fascismo più deteriore, quello repubblichino, accolse nel suo seno esaltati, se non mentecatti, di ogni risma pronti a conclamare in ogni occasione la propria viscerale avversione al sistema della democrazia liberale, avversione condivisa dal loro capo, nonché ad alimentare deliranti segni di

rivalsa e speranze e propositi illusori di rovesciare il regime creato dalle forze andate al potere dopo la disfatta del fascismo: conseguentemente è indubbio e risulta documentato in atti, che all'organizzazione del Fronte Nazionale appartennero individui che, in assenza di qualsiasi elemento che potesse conferire caratteri di concretezza ai loro discorsi, presero a farneticare di imminenti colpi di Stato, nei quali essi stessi e il movimento cui si erano affiliati avrebbero dovuto avere un ruolo determinante, o almeno significativo, a spingere le proprie sfrenate fantasie, apparse subito comiche alla generalità dei compari, un po' meno sprovveduti di loro, sino al punto di vagheggiare spartizioni di cariche per sé e per i propri amici e conoscenti nell'amministrazione centrale e periferica dello Stato, a predisporre proclami da rivolgere al popolo dopo la auspicata instaurazione del fantasticato "ordine nuovo", ad immaginare come imminenti sovvertimenti istituzionali....". 

Sorprendente appare alla Commissione che a valutazioni siffatte si sia potuto giungere nel 1984, cioè al termine del terribile quindicennio che ha insanguinato la Repubblica; e cioè dopo che una serie di eventi, con la tragicità della loro evidenza, avevano dimostrato la estrema pericolosità dei fenomeni, in cui la vicenda della notte dell'Immacolata veniva ad inserirsi, preannunciando in qualche modo episodi successivi, di cui molti degli aderenti al Fronte Nazionale furono, come già segnalato, i negativi protagonisti. Vuol dirsi cioè che una valutazione giudiziaria così minimizzante dell'episodio avrebbe avuto senso se lo stesso fosse venuto ad inserirsi in un contesto storico sociale assolutamente pacifico; e cioè affatto diverso da quello che caratterizzò il Paese per l'intero decennio degli anni '70. 

In quel contesto la vicenda della notte dell'Immacolata non può meritare una così intensa sottovalutazione che stride, fino alla inverosimiglianza, con la stessa personalità del suo protagonista, (il Comandante Borghese), quale già all'epoca nota e quale meglio è venuta a precisarsi a seguito di più recenti acquisizioni: un coraggioso uomo d'armi, avvezzo a responsabilità di elevato comando, esperto di guerra e di guerriglia, conoscitore degli aspetti e dei profili occulti del potere, sia in ambito nazionale che internazionale. Appare francamente inverosimile che personalità siffatta si sia posta alla testa di un gruppo di "mentecatti" o di "giovinastri" quali alla autorità giudiziaria sono apparsi gli affiliati al Fronte Nazionale, per assumere i rischi di pesanti responsabilità senza alcun tornaconto personale ovvero senza alcuna concreta possibilità di successo. 

Peraltro è estremamente probabile che anche gli esiti giudiziari della vicenda sarebbero stati diversi se intense e molteplici non fossero state le condotte di occultamento della verità anche da parte degli apparati. 

Le varie fasi del tentativo insurrezionale furono infatti costellate da contatti tra uomini del Fronte Nazionale e pubblici funzionari, in cui è difficile distinguere le condotte partecipative di questi ultimi da quelle di mero favoreggiamento successivo. 

Con nota del 13 agosto 1971, infatti, il SID comunicò all'autorità giudiziaria che le notizie in possesso del Servizio 

"portavano all'esclusione di collusioni, connivenze o partecipazioni di ambienti o persone militari in attività di servizio". 

 Sin dal 1974 emerse, invece, che il SID aveva occultato rilevanti elementi di prova sugli avvenimenti della notte dell'Immacolata. Erano infatti state raccolte, nell'immediatezza dei fatti (e per alcuni versi persino prima che essi accadessero), informazioni assai particolareggiate sulla organizzazione del colpo di Stato e sulla identificazione di coloro che - a diverso titolo - vi avevano avuto parte. 

Tra queste informazioni ve ne erano di provenienza non meramente confidenziale, come le registrazioni dei colloqui avvenuti tra il Capitano del SID Antonio Labruna e uno dei congiurati, Remo Orlandini, nonché registrazioni di conversazioni telefoniche raccolte sin dal giorno successivo al fallimento dell'iniziativa. 

Nel settembre 1974 il Ministro della Difesa, Giulio Andreotti, impose al SID (e per esso al nuovo direttore Casardi e a quello del Reparto D, Gian Adelio Maletti) di comunicare all'autorità giudiziaria le informazioni in possesso del servizio. 

Furono quindi inviate tre distinte memorie, che riguardavano rispettivamente il Golpe Borghese, la "Rosa dei Venti" e ulteriori fatti di cospirazione dell'estate 1974, a seguito delle quali fu infine esibito il materiale (che all'epoca si ritenne integrale) raccolto dl Reparto D. 

Già da questo materiale risultò evidente che il Servizio aveva seguito sin dalla nascita il Fronte Nazionale; risultano accuratamente descritti i contatti con i dirigenti di Ordine Nuovo (tra cui Pino Rauti) e di Avanguardia Nazionale (tra cui Stefano Delle Chiaie, definito "un tecnico della agitazione di massa e della cospirazione"); l'addestramento all'uso delle armi individuali; la preparazioni del colpo di Stato; la disponibilità di armi e i collegamenti con settori delle Forze Armate (ivi compreso il ricorso alle caserme per l'approvigionamento delle armi e munizioni in caso di necessità). 

Nessuna contromisura risultò però essere stata predisposta e il disvelamento della condotta del Servizio al suo interno portò allontanamento del suo Direttore generale Miceli e al rafforzamento di Casardi e Maletti. 

Fu però soltanto a seguito dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli (avvenuto in Roma il 21 marzo 1979) che si accertò come solo una parte delle informazioni fosse stata effettivamente posta a disposizione degli inquirenti: quelle concernenti il coinvolgimento di alti ufficiali delle Forze Armate e dello stesso Servizio di informazione erano state in realtà in larga parte soppresse. 

Nel colorito linguaggio del settimanale OP - che appare sempre di più un singolarissimo crocevia, un luogo fitto di intrecci di svariati "fiumi carsici" che attraversarono la vita del Paese - ciò verrà sintetizzato nella espressione "malloppone e mallopponi" a segnalare che da un originario, grande rapporto erano state ricavate più modeste, purgate informative. 

I contenuti di OP, decrittati alla luce delle acquisizioni di cui oggi si è in possesso, convincono che tra le responsabilità da occultare vi fu anche con ogni probabilità quella di Lucio Gelli il cui ruolo sarebbe stato quello di consegnare la persona del Presidente della Repubblica in mano al Fronte Nazionale, avvantaggiato in ciò dai rapporti diretti con il gen. Miceli che davano a Gelli libero accesso al Quirinale. 

Questo è il ruolo che a Gelli sarebbe stato assegnato nel colpo di Stato del 1970 in danno del Presidente Saragat; analogo ruolo Gelli avrebbe dovuto svolgere in danno del Presidente Leone secondo un altro progetto eversivo del '73-'74, di cui in seguito più ampiamente si dirà. 

 In più recenti indagini giudiziarie[1], sulla base di nuovi apporti collaborativi di Spiazzi e Labruna, meritevoli indubbiamente di ulteriori verifiche, è in particolare emerso: 

1. L'attività informativa svolta sul Golpe Borghese e sulla Rosa dei Venti, contattando soprattutto Remo Orlandini, e la successiva espunzione e manipolazione dei nastri operata dai responsabili del Reparto D, affinché non divenisse pubblico il coinvolgimento in tali progetti di alcuni alti ufficiali, di Licio Gelli e di parte della massoneria, nonché la piena conoscenza del progetto Borghese e di quelli successivi da parte degli ambienti militari americani. 

2. La consegna allo stesso Labruna ad opera del giornalista Guido Paglia, divenuto alla fine del 1972 informatore del SID, di una dettagliata relazione sul ruolo svolto da Avanguardia nazionale nel golpe Borghese e sugli avvenimenti della notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, relazione poi trasmessa al gen. Maletti e mai inviata da questi all'autorità giudiziaria, rimanendo praticamente inutilizzata. 

3. La consegna da parte di Guido Giannettini, sempre a Labruna, di un'analoga relazione sul golpe Borghese, dalla quale i responsabili del Reparto D avevano soppresso la nota relativa all'ammiraglio Giovanni Torrisi affinché non ne emergesse il coinvolgimento nei fatti del 1970.

Vengono in tal modo ad aprirsi nuove prospettive di indagine, di cui non è qui il caso di dar compiutamente conto, ma che se utilmente percorse porterebbero in luce più ampie connessioni di apparati istituzionali e con il golpe tentato del '70 e con un successivo progetto eversivo del '73-'74, che avrebbe dovuto perseguire, sempre con modalità sostanzialmente insurrezionali, la realizzazione di un progetto di revisione costituzionale, che portasse all'instaurazione di una Repubblica presidenziale, caratterizzata da programmi socialmente avanzati, ma da forti limitazioni dei diritti sindacali, concentrazione dei mezzi di informazione e da una forte scelta atlantista; un progetto di "stabilizzazione" quindi da realizzarsi attraverso mezzi destabilizzanti (attentati sui treni e in luoghi pubblici, eliminazione di avversari politici, scontri di piazza) la cui responsabilità sarebbe stata apparentemente attribuibile alla sovversione di sinistra, sì da determinare una forte domanda d'ordine e quindi giustificare l'intervento delle Forze Armate. 

 In particolare, con specifico riferimento al tentativo insurrezionale del '70, recenti acquisizioni processuali, soprattutto dell'autorità giudiziaria di Milano e di Bologna, consentono una lettura dell'episodio che ne aggrava la rilevanza, avuto riguardo ad una più precisa individuazione di quanto si sarebbe dovuto verificare. 

Ad agire in supporto degli insorti non avrebbero dovuto essere solo manipoli di congiurati, raccolti intorno a ufficiali infedeli. 
In realtà la notte del 7 dicembre sarebbe stato impartito (come afferma lo stesso Spiazzi) l'ordine di mobilitazione delle strutture costituite nell'ambito degli uffici I dell'Esercito con funzione di contrasto di moti comunisti. Si sarebbe trattato dunque della mobilitazione delle strutture miste, costituite da civili e militari, denominate Nuclei di difesa dello Stato, e di cui si è detto in altra parte della relazione. 

Ciò sembra confermato dalle dichiarazioni di uno dei componenti di questa struttura, direttamente dipendente dallo Spiazzi (Enzo Ferro) e da quelle rese sin dal 1974 da altro componente (con ruoli di maggior rilievo) Roberto Cavallaro. 

L'ordine, come riferito da Spiazzi, sarebbe stato impartito per radio, attraverso i codici del piano di mobilitazione; Spiazzi afferma che ricevendo, ne chiese conferma, ottenendola, e quindi si mosse; ricevette poi il contrordine, quando ormai aveva raggiunto le porte di Milano e fece ritorno in caserma. 

Se queste furono le modalità di comunicazione dell'ordine di mobilitazione, è da presumere che anche gli altri Nuclei siano stati attivati, anche se la loro stessa esistenza e poi rimasta coperta dal segreto per oltre vent'anni. E in effetti plurime fonti di recente acquisizione indicherebbero che la mobilitazione ebbe luogo: 

 1. a Venezia, di civili e militari, d'innanzi al comando della Marina militare; 

 2. a Verona di civili e militari; 

3. in Toscana e Umbria, dove i militanti erano stati dotati ciascuno di un'arma lunga e di una corta e gli obiettivi assegnati; 

4. a Reggio Calabria, ove avrebbe dovuto aver luogo la distribuzione di divise dei Carabinieri. 

Si è in presenza, giova ribadirlo ancora, di nuove acquisizioni processuali non ancora sottoposte al necessario vaglio dibattimentale. E tuttavia le stesse appaiono idonee a rafforzare il convincimento della Commissione, nell'ambito delle competenze sue proprie, in ordine alla sottovalutazione già sottolineata che gli avvenimenti della notte dell'Immacolata ebbero nelle segnalate sentenze delle Corti di Assise romane e anche in sede pubblicistica. 

Ad una riflessione più meditata che tenga conto, come è alla Commissione possibile per la specificità dell'angolo prospettico che ne caratterizza l'indagine, gli avvenimenti oggetto di esame appaiono non già un "golpe da operetta", quanto il punto di emersione di un ampio intreccio di forze, cospirative che furono occultamente attive per un lungo periodo; e che, analizzato nelle sue diverse componenti, rende leggibili una pluralità di avvenimenti anteriori e successivi, che altrimenti sarebbero destinati a restare oscuri e quindi inconoscibili nelle loro nascoste ragioni. 

Va peraltro riconosciuto che anche in tale più ampia ricostruzione resta irrisolto quello che sin dall'inizio apparve come uno dei nodi principali posti in sede analitica dagli avvenimenti del dicembre 1970; e che attiene alle ragioni per cui il tentativo insurrezionale, che oggi può ritenersi il frutto di un'ampia cospirazione, rientrò quasi immediatamente dopo l'iniziale attivazione. 

Si è già detto che il contrordine venne dato dallo stesso Borghese che non ne ha mai voluto spiegare le ragioni, nemmeno ai suoi più fidati collaboratori. 

In merito resta aperta l'alternativa tra due ipotesi. 

La prima suppone che, all'ultimo momento, solidarietà promesse o sperate sarebbero venute meno, determinando in Borghese il convincimento che il tentativo insurrezionale diveniva a quel punto velleitario e senza possibilità di successo. Sicché lo stesso fu rapidamente abbandonato, fidando nella probabile impunità assicurata dalle "coperture", che poi puntualmente scattarono. 

Una seconda lettura più articolata ipotizzerebbe invece in Borghese o in suoi inspiratori l'intenzione, sin dall'origine, di non portare a termine il tentativo insurrezionale. Quest'ultimo anche nella sua iniziale attivazione sarebbe stato concepito soltanto come un greve messaggio ammonitore inviato ad amici e nemici, all'interno e all'esterno, con finalità dichiaratamente stabilizzanti. 

Si sarebbe trattato in altri termini di un ulteriore avanzamento della logica della minaccia autoritaria, già sperimentata con il "tintinnare di sciabole", che come si è visto fortemente condizionò la crisi politica dell'estate del 1964. 

Paolo Aleandri riferì alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P 2 l'interpretazione che ne era stata data da uno dei protagonisti, Fabio De Felice, a Gelli molto vicino. 

Il contrordine, secondo il De Felice, sarebbe giunto proprio da Gelli, essendo venuta meno la disponibilità dell'Arma dei Carabinieri e non essendo stato assicurato l'appoggio finale degli U.S.A.; Alfredo De Felice, poi, aveva aggiunto che la mobilitazione non aveva una reale possibilità di riuscita e il fantasma di una svolta autoritaria era stato utilizzato da Licio Gelli come una sorta d'arma di ricatto. 

Queste indicazioni trovano ora conferma nelle dichiarazioni di Andrea Brogi, il quale riferisce informazioni provenienti da Augusto Cauchi, del quale risultano i diretti rapporti con Gelli.